lunedì 20 febbraio 2012

ELEMENTI PER UN PROFILO DELLA PERSONA EX DETENUTA


Dal punto di vista psicologico la persona svantaggiata, anche a causa dell’emarginazione sociale determinata dalla detenzione, denota fragilità, insicurezza, mancanza di prospettiva reale, perdita o diminuzione consistente dell’autostima, equilibrio instabile, irritabilità accentuata, difficoltà a concentrarsi, incapacità di apprendere dalla storia personale o dalle vicende di altri[1].
Per quanto concerne l’ambito lavorativo il periodo della carcerazione ha necessariamente determinato alcuni inconvenienti riferibili al “tempo di vita sospesa” passato in detenzione: la sospensione dell’attività lavorativa, la desuetudine all’esercizio di abilità tecniche, intellettive e manuali, il mancato aggiornamento sulle innovazioni dei materiali, degli strumenti, dell’attrezzatura. La vita trascorsa in carcere, lo svilimento della propria capacità professionale, l’eventuale emarginazione di un “deviante tra i devianti”[2].
Tutti questi inconvenienti sono ancora più incisivi se si tratta di detenuto che non ha mai seriamente lavorato o ha svolto incarichi di lavoro molto saltuari o estremamente precari (aiuto barista, gommista, aiuto idraulico, fattorino…). Per costoro la proposta di formazione professionale e lavorativa non viene recepita né riferita ad un concetto teorico che si identifichi con il lavoro perché questi detenuti non sanno proprio cosa significhi il lavoro e meno ancora un lavoro.
Queste situazioni turbano e aumentano l’insicurezza e il disorientamento personale: la prospettiva lavoro, della quale tutti gli operatori istituzionali e sociali parlano con enfasi attribuendole un’importanza insostituibile, è percepita come condizione determinante, ma è anche affrontata con passiva acquiescenza: “sono qui e voglio vedere cosa voi siete in grado di farmi fare!”.
Il detenuto che aveva lavorato prima della carcerazione, in prossimità del (re)inserimento lavorativo manifesta qualche perplessità: “La detenzione non mi ha per caso arrugginito troppo? Sono in grado di far fronte per otto ore alla fatica? Come mi accoglierà l’ambiente di lavoro?”.
La capacità relazionale della persona viene messa a dura prova perché deve essere in grado di modificarsi, anche in modo rilevante, simultaneamente all’uscita dal carcere. È certo che il riadattamento della persona non è semplice, né lineare e neppure progressivo. Nella dialettica tra il detenuto e il contesto di riferimento (famiglia, ambito lavorativo, condominio, gruppi amicali…) si evidenziano alcune distorsioni e forzature reciproche, diffidenze, pregiudizi di andata e ritorno: “Gli altri capiscono subito che sono stato in carcere! I miei precedenti mi costringono a subire atteggiamenti prevenuti che non avrei mai tollerato! Come reagiranno e si relazioneranno con me i miei figli, mia moglie, i miei familiari!?”.
Effettivamente il ritorno in famiglia dopo la carcerazione pone nel gruppo qualche problema, anche complesso, perché, come riferisce De Salvia, “i familiari, che si sono abituati a gestire in sua assenza i loro rapporti in modo funzionale, devono forzatamente riposizionare gli indicatori di status e riformulare le relazioni di ruolo secondo una nuova dimensione e più articolate interazioni”[3].
La situazione dell’ex detenuto appena liberato fa venire in mente l’idea di trovarsi immerso in un liquido molto fluido nel quale non è possibile fissare alcun punto stabile: la famiglia può essere percepita formalmente come riferimento, tuttavia al suo interno le relazioni intersoggettive devono subire un processo di maturazione, di rinegoziazione, di riposizionamento; per quanti sforzi si facciano, i tempi e le modalità di sviluppo possono seguire itinerari personali senza riuscire a sincronizzarsi e a sintonizzarsi.
La capacità di riproporsi in modo costruttivo costituisce l’obiettivo preminente. Appena terminata la carcerazione (ma anche quando la persona esce dal carcere in misura alternativa, come la semilibertà o l’affidamento in prova), la persona vive una “ubriacatura di libertà” nella quale egli deve nel più breve tempo possibile riprendere possesso delle proprie facoltà, recuperare il tempo perduto, riappropriarsi delle proprie capacità e rimettersi alla prova come partner affettivo e sessuale, come genitore, come figlio, come lavoratore… Si può affermare quasi che l’ex detenuto vive una situazione paradossale: ha bisogno di conferme per migliorare l’autostima, ma si sente insicuro, fragile, impotente, avvilito, e quando si ripropone, ad es. per un colloquio di lavoro, deve mostrare capacità di autocontrollo, di relazione matura ed adulta, di gestione delle tensioni…
Per favorire questa attività di riequilibrio dinamico si ritiene sia indispensabile l’affiancamento e l’accompagnamento di un tutor durante le fasi iniziali del reinserimento lavorativo.



[1] Cfr. Gonin, op. cit., il quale ha evidenziato tra l’altro, le sofferenze psicologiche dovute alla detenzione.

[2] G.D. Colazzo, La devianza tra i devianti. I valori, le norme di una comunità carceraria e la loro trasgressione, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, 2005.

[3] Durante il mio tirocinio presso il CFPP ho avuto modo di parlare approfonditamente con diverse figure che collaborano, anche esternamente, con l’Agenzia per il reinserimento socio-lavorativo di persone detenute o ex detenute. Con molti di loro ho partecipato, in qualità di volontario, al progetto “Carcere: territorio della città”, patrocinato e finanziato dalla Provincia di Torino, che si pone come obiettivo, tra gli altri, quello di sensibilizzare i giovani delle scuole medie superiori sui temi della devianza e della criminalità.

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