martedì 20 marzo 2012

LA MIA PRIMA VOLTA IN CARCERE (lettera firmata)


Mi chiamo Gerardo Corsini e da tre lustri trascorro la mia vita tra cancelli e muri di cinta. Oggi ho una cella tutta per me in un carcere del nord, ma provengo dal sud. Non è stato sempre così. Il mio primo impatto con il mondo carcerario è stato traumatico. Non avrei mai potuto immaginare che quel maniero di cemento che vedevo tutti i giorni sarebbe stata la mia residenza per così tanti anni. Gli passavo accanto e non mi ha mai sfiorato l’idea che al di là del muro ci potessero essere delle non persone, ammucchiate in una misera stanza perennemente umida e mai abbastanza grande per contenere tanta sofferenza gratuita.
Dopo qualche giorno di cella di isolamento mi misero in una stanza con altre undici persone. Gli odori che emana il carcere e che poi ti si impregnano addosso sono difficili da descrivere, sono un misto di sudore, di umido, di aglio o cipolla che continuamente saltano in padella. Col tempo non senti più alcuna puzza perché diventa anche la tua. Ci si fa l’abitudine a tutto, anche al fatto che avevamo un cesso soltanto parzialmente separato dal resto della stanza. Il muro separatore non arrivava fino al soffitto, era stato costruito in seguito. I più anziani si ricordavano quando il cesso alla turca era lì in quell’angolo della cella e per creare un po’ di intimità lo avevano separato con un lenzuolo che andava da un muro all’altro tanto da creare un angolo retto. Il cesso alla turca non c’era più ed al suo posto una tazza. La puzza rimaneva la stessa e l’intimità, se così si può chiamare, era spesso disturbata dalle battute degli altri: «Hei tu, puzzi come un morto» oppure «Provaci con la sinistra, è più bello!» Per andare in bagno si aspettava l’ora d’aria, ma non tutti scendevano. Era così piccola che in stanza si stava più tranquilli.
Eravamo dodici persone, quattro letti a castello per tre piani. Chi dormiva al terzo piano doveva stare attento a non cadere (come si fa a stare attenti mentre si dorme?) e colui che occupava la terza branda vicino al cesso, era costretto a scendere ogni volta che vi entrava qualcuno perché dall’alto si poteva guardare all’interno. Per almeno tre mesi quella branda è toccata a me. Ci salivo solo per dormire. Le prime notti non chiudevo occhio perché ero abituato a dormire proprio dal lato del cesso, poi mi sono abituato a dormire anche dall’altro. Era veramente umiliante quel posto ma sapevo che spettava all’ultimo arrivato, soprattutto se questi non era un signor nessuno, come ero io. Quando arrivò la notizia che uno di noi sarebbe uscito di lì a poche ore ero così contento che cambiai subito posto, sempre con l’approvazione degli altri naturalmente. Eh si, era proprio così! Tutte le azioni dovevano essere approvate dal capo-cella, solitamente il più anziano, o il più esperto, o semplicemente chi apparteneva.
La prima volta che sentì parlare di appartenenza fu proprio quando entrai in quella stanza. Erano le tre di pomeriggio. Dormivano quasi tutti e c’era un silenzio strano. Il rumore delle chiavi svegliò tutti, mi guardarono entrare, qualcuno si presentò, poi mi fece avvicinare ad una persona che era stesa sul letto. Mi presentai, poi mi disse: «Appartieni a qualcuno?» Non sapevo cosa volesse dire ma gli risposi di no. Destinazione: terza branda in alto accanto al cesso. Misi poco ad imparare il linguaggio del carcere, anzi con gli anni ho cominciato a comportarmi come se appartenessi.
Ho chiesto il trasferimento al nord per studiare ed adesso sto per laurearmi. Avevo sempre sognato una laurea in Scienze Politiche, malgrado non avessi finito da ragazzo gli studi liceali. Al quarto anno abbandonai perché volevo lavorare, ero stanco di elemosinare ancora a diciassette anni la paghetta settimanale. Ero affascinato dall’idea di una vita on the road  e solo lavorando era possibile. Fu un errore.

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