1. Le tipologie di detenuti
Prima di passare ad analizzare come si svolge praticamente le vita carceraria e che tipo di rapporti esistono tra carcerati, è necessario ricordare, se ce ne fosse bisogno, le varie tipologie di detenuti. La seguente classificazione va tenuta in conto poiché è evidente la diversità tra le tipologie, sia dal punto di vista della ricerca del potere, difficilmente raggiungibile per alcune categorie rispetto ad altre e che permette a chi ne è il detentore di tagliarsi uno spazio personale in cui gli altri non hanno accesso, sia dal punto di vista dell’effetto della prigionizzazione, alta o bassa a seconda della tipologia. La divisione in tipi diversi di detenuti viene fuori soprattutto tenendo presente non solo l’entità della pena e il tipo di reato, i quali possono essere anche simili tra le diverse categorie, ma anche se si tiene conto della cultura individuale precedente alla carcerazione e di conseguenza la predisposizione di ognuno ad accettare o a rifiutare la subcultura carceraria. Come si vedrà, i boss mafiosi, gli affiliati e, sovente, idelinquenti abituali provengono da un ambiente “particolare”, in cui “è tenuto conto” della possibilità di trascorrere una parte della loro vita in carcere, per cui sono anche preparati psicologicamente; mentre il resto dei detenuti, individuato nella categoria dei non etichettabili, hanno provenienza diversa, anche se non tutti, e fanno fatica ad accettare non solo la pena in sé ma tutto ciò che ruota intorno alla comunità carceraria, regole comprese. Infine della categoria dei devianti per eccellenza fanno parte quei detenuti, individuabili esclusivamente dal tipo di reato o dal loro comportamento “immorale”, tendente cioè alla delazione (vedi pentiti).
- boss mafiosi: sono coloro che solitamente detengono il potere all’interno del carcere e che regolano la vita carceraria facendo rispettare le regole, impartendo ordini e sanzioni;
- affiliati: sono i picciotti dei boss mafiosi che controllano, o dovrebbero controllare, il territorio per conto del capo. L’alto o basso grado del potere del boss è dato solitamente dal numero più o meno ampio degli affiliati. Il carcere è vissuto dagli affiliati come fosse la loro casa e, di solito, è una scelta razionale quella di delinquere o quella di affiliarsi ad un “gruppo” piuttosto che a un altro. Dipende molto dalla vicinanza materiale della persona a cui si fa riferimento: abitare nello stesso quartiere o lo stesso palazzo, aver condiviso con lui la stessa cella in passate carcerazioni, aver ricevuto favori particolari, ecc.;
- delinquenti abituali: sono tutti quelli che entrano ed escono dal carcere ma non sono affiliati: scippatori, rapinatori, ladri, spacciatori, ecc. Questi detenuti hanno un grado di prigionizzazione troppo alto e sanno affrontare i pericoli insiti nella carcerazione perché hanno imparato attraverso l’esperienza diretta. Molto spesso si affiliano, magari per convenienza; sanno che la loro vita non può cambiare, per cui cercano di stare nel miglior modo possibile in carcere. Affiliarsi diventa quasi naturale. Coloro che non lo fanno preferiscono rimanere indipendenti; solitamente sono i più forti di carattere, più forti fisicamente e più capaci di gestire i loro rapporti con gli altri. La forza fisica ha una certa funzione deterrente, che difende chi ne è dotato dagli abusi di potere “legittimi” o “non legittimi”, come quelli messi in campo da personaggi con pochi scrupoli. Infatti risulta più difficile imporre un certo comportamento ad un individuo alto un metro e ottanta con novanta chili di peso che imporlo ad uno che è alto uno e settanta e pesa settanta chili. A volte basta solo la prestanza fisica per tenersi lontani dai pericoli insiti nell’interazione con gruppi che fanno riferimento a valori diversi rispetto ai propri.
- detenuti non etichettabili: solitamente il termine “comune” è associato a quei detenuti che non sono né mafiosi, né politici e sono raggruppati in sezioni, appunto, comuni. In questa sede i “comuni” sono i non etichettabili e saranno differenziati anche dai delinquenti abituali per marcare l’esistenza in carcere di persone che hanno fatto un reato per la prima volta, i “pivelli”, che, acquistando esperienza con il tempo, diventano “esperti”; sono coloro che si sono macchiati di un solo reato e che scontano la pena, anche lunga, cercando di differenziarsi dagli altri. Questi sono spesso diversi per cultura, per intelligenza, per estrazione sociale. La diversità deriva anche dal fatto che non riescono ad accettare l’ambiente carcerario con le sue regole e oppressioni, ma sono costretti ad adeguarsi. Sono coloro che spesso vengono etichettati come devianti dal resto della popolazione carceraria, indipendentemente dal reato che hanno compiuto. Il loro grado di prigionizzazione è di solito basso perché non riescono ad accettare una integrazione totale con l’ambiente, anche se la subiscono, loro malgrado. È dal punto di vista di questi detenuti che si intende guardare le regole pratiche carcerarie, perché solo così si potrà comprendere le conseguenze che esse hanno sulla psiche e sul comportamento degli stessi detenuti, proprio perché provengono da una cultura diversa, arrivano in un ambiente al quale loro non ci avevano mai pensato nel corso della loro vita. Si vedono catapultare da una realtà ad un’altra senza che ci sia stata una sorta di “transizione iniziatrice” o “apprendistato”, come avviene per esempio per quei delinquenti abituali che conoscono l’ambiente carcerario poco per volta. Questi detenuti vengono messi alla prova in tutti i momenti della giornata, sia dai loro stessi compagni sia dalle pratiche istituzionali. Nel linguaggio carcerario mafioso, queste persone sono spesso chiamati “boni vaglioni” o “boni cristiani” (bravi ragazzi o brave persone o semplicemente non affiliati), a seconda che si tratti di giovani o adulti.
- Detenuti devianti per eccellenza: sono i pedofili, gli omosessuali o transessuali, gli stupratori, i pentiti di mafia, gli infami; sono tutti quei detenuti che non condividono gli stessi spazi degli altri, o perché hanno commesso reati ripugnanti (pedofili, stupratori), o perché sono “diversi” (omosessuali), o perché per vari motivi hanno accusato altre persone di qualche reato (pentiti, infami). Questa tipologia verrà trascurata solo per il fatto che i detenuti non sono presenti tra gli altri, quindi costituiscono un mondo a parte, anche se è facilmente ipotizzabile che nelle loro sezioni (ad eccezione di quelle dei pentiti), è in vigore la legge del più forte.
Credo che queste tipologie valgano anche per le donne, anche se, naturalmente, non ho esperienze dirette. Però spesso sono le compagne di altri detenuti e non è difficile sentir parlare un detenuto della situazione femminile in carcere. Probabilmente il loro ambiente non è molto diverso da quello degli uomini, perché i racconti dei loro amici in carcere tende quasi sempre a evidenziare l’uguaglianza delle condizioni tra uomini e donne, anche se c’è da tenere presente che la comunità femminile è molto ristretta numericamente (le celle quasi sempre sono singole), per cui i rapporti tra di loro hanno più un carattere amicale piuttosto che di contrasto.
È necessario precisare a questo punto che soprattutto nell’ultimo decennio sono aumentati gli immigrati in carcere, soprattutto al nord, ma anche al sud c’è stato il periodo tra il 1989 e il 1993, ossia in concomitanza dei primi sbarchi massicci di immigrati provenienti dall’est, soprattutto albanesi e slavi. Classificare questi detenuti non è facile, ma si può azzardare a dire che non possono essere inclusi nelle prime due categorie, per la mancanza di una cultura mafiosa, così come è quella italiana. Questo non vuol dire che non possono attingere al potere, anzi tra di loro esiste spesso una figura di riferimento che intrattiene i rapporti con gli indigeni. Sicuramente non si interessano della comunità nella sua totalità, non la vedono come qualcosa di strutturato e organico. Tra di loro non ci sono regole che riguardano i comportamenti da tenere in carcere. Spesso ho discusso con loro proprio di questa diversità e ne è venuto fuori che ognuno è responsabile delle proprie azioni, non ritenendo giustificabile la presenza di tutte quelle regole. Cercano di assimilarle perché sanno che i detenuti italiani sono ancorati soprattutto al valore del rispetto. Sicuramente è più semplice classificarli come delinquenti abituali dato che moltissimi di loro hanno commesso gli stessi reati reiterati e hanno conosciuto il carcere poco per volta.
Tra una categoria e l’altra si possono verificare dei passaggi, soprattutto a causa del «contagio sociale»[1], in base al quale i detenuti «si concentrano territorialmente, accentuano le loro caratteristiche di temperamento e ne cancellano altre»[2]. Il “contagio” avviene perché si vive in ambienti ristretti, ma dipende anche dal caso. Per esempio, è potenzialmente più facile passare dalla categoria dei delinquenti abituali a quella degli affiliati se si è ubicati in una cella in cui i primi sono a maggioranza piuttosto che il contrario. Col tempo si sviluppano stili di comportamento e valori comuni e si giustificano atteggiamenti caratteristici. Se consideriamo impropriamente, dal punto di vista del potere, la disposizione delle categorie come una scala gerarchica, al cui vertice stanno i “boss”, si può facilmente concludere che passaggi tra una tipologia e l’altra avvengono quasi sempre in modo ascendente e mai discendente. È difficile che un affiliato passi nella categoria dei delinquenti abituali o in un’altra, in quanto è la scelta di affiliazione è definitiva, a meno che il soggetto non si sia macchiato di una colpa grave, come quella di “denunciare un suo compagno”. Può succedere anche che un detenuto non etichettabile passi nella categoria degli affiliati senza procedere per quella dei delinquenti abituali. Soltanto per diventare un “boss” è necessario, naturalmente, essere un “affiliato”. Dal punto di vista del detentore del potere, la scala gerarchica è formata dal “boss mafioso”, che sta al vertice, dagli affiliati, collocati in una posizione media della piramide, e da tutti gli altri che sono alla base, tra i quali un occhio di riguardo è per quegli individui che caratteristicamente hanno una certa predisposizione ad essere affiliati. I “devianti per eccellenza”, essendo disprezzati in genere da tutta la comunità, una volta etichettati come tali, non hanno voce in capitolo. D’altra parte sono isolati dal resto dei gruppi direttamente dagli amministratori penitenziari.
La distinzione tra le categorie vale per tutti i tempi e tutti i luoghi, anche se c’è da sottolineare che nelle carceri del sud, essendo maggiore l’influenza della malavita organizzata esterna, il ruolo del boss o dell’affiliato assume una posizione di maggior rilievo rispetto agli altri. Non bisogna dimenticare che l’istituzione del 41bis ha permesso l’allontanamento di molti “boss” dalle sezioni comuni e ciò ha consentito una diminuzione del loro potere. Di conseguenza, se da una parte è causa di conflitti tra gruppi (al sud), dall’altra ha permesso l’instaurarsi di una concezione nuova, in cui la figura del boss è quasi inesistente. In generale, si può dire che le tipologie dei detenuti sopra riportate sono valide in tutte le comunità carcerarie.
Probabilmente le regole e il potere, oggetto di discussione nel prossimo paragrafo, sono percepiti in modo diverso a seconda della prospettiva del detenuto. Se questi è un “comune”, il loro impatto è psicologicamente più destabilizzante. E’ questo il motivo che mi spinge ad analizzare la comunità carceraria dal suo punto di vista. D’altra parte la comunità carceraria è un mondo così complesso e ricco di contraddizioni che è difficile mettersi nei panni di tutte le categorie.
2. I valori fondamentali: rispetto e omertà
Il rispetto è un concetto fondamentale, è il “principio” che sta alla base di tutte le norme che regolano la vita carceraria. È una “forza generatrice” che crea regole e consente di tenere stabile una comunità altrimenti instabile, votata all’anarchia, alla legge del più forte, di tutti contro tutti. È da tenere presente, però, che all’interno del carcere il significato è andato modificandosi con il tempo, per cui è necessario soffermarsi per analizzarlo meglio.
Il rispetto è un «sentimento di deferenza, stima e considerazione verso persone, principi e istituzioni»; oppure un «sentimento e atteggiamento di riguardo verso la dignità o il valore altrui, che ci trattiene dall’offendere, dal recare danno […]»[3]. Rispettare la dignità altrui è fondamentale nella società civile, anche se a volte viene calpestata.
In carcere il rispetto è una sorta di imposizione, o meglio lo è diventato, ed è cambiato di significato. Non è più un “sentimento nato da stima verso persone ritenute superiori”, ma un “atteggiamento che il detenuto deve tenere nei confronti di chi è più forte”, oppure vuol dire “non offendere le persone ritenute superiori dalla comunità”. In termini pratici significa “obbedienza”. Il vero significato di “rispetto” non ha più valore se non in situazioni di vera amicizia che può nascere tra persone che convivono nella stessa comunità. Ha lo stesso significato, invece, rispetto alla società civile quando riguarda le norme. Nella subcultura mafiosa un “uomo di rispetto” è l’uomo omertoso, colui che ha fatto strada nel crimine, che ha il potere di farsi obbedire da un gran numero di altre persone, suoi affiliati. Questo concetto è stato trasferito in carcere, per cui si capisce benissimo che il rispetto è falso, perché scaturisce dalla paura e non dalla stima per qualcuno. Nel gruppo criminale il rispetto è ritenuto di fondamentale importanza, ma potrebbe anche essere giusto se rimanesse nell’ambito del gruppo in questione, visto dal loro punto di vista. È senz’altro vero, d’altra parte, che una concezione così deterministica del rispetto ha consentito negli anni di “governare” una comunità altrimenti priva di regole, in cui la prevaricazione dell’uomo sull’uomo utilizzando la forza fisica avrebbe costituito la prassi. A tale riguardo (considerato che nelle carceri italiane la promiscuità sessuale è considerata un atto deplorevole e combattuta con tutti i mezzi), basta ricordare che è stato così alterato il concetto di “rispetto” a tal punto che fare la doccia nudi o girare in mutande in cella non è consentito. Anche se il termine ha perso il suo originale significato, è ancora molto importante quando si tratta di rispettare l’anzianità, non soltanto quando si riferisce a persone che hanno trascorso molti anni in carcere, ma anche quando l’anzianità è biologica.
Molte volte ci si trova nella condizione di “rispettare il cane per il padrone” (altra espressione linguistico-gergale tipicamente carceraria, diffusa anche nella società civile), ossia dare rispetto a persone che non lo meritano per il loro carattere prepotente o per il loro modo di agire irrispettosamente soltanto perché sono “amici” di qualcuno influente all’interno o all’esterno. È una situazione in cui si è nell’impossibilità di agire come si vorrebbe verso certe persone “protette”, ed allora queste si permettono di insultare o umiliare i più deboli, con la conseguenza di generare animosità e odio. È accaduto spesso che coloro i quali non avevano ancora “scaldato il letto” (altro gergo), cioè individui da poco in carcere, abbiano voluto dimostrare da subito la loro potenza nei confronti di altri già “vecchi di galera”, manifestando palesemente la loro presunta superiorità. Da norma consolidata, si dovrebbe avere rispetto di quelle persone già “anziane”, ma tale regola è stata spesso disattesa e quando il “padrone” veniva trasferito in altro carcere, il “cane” veniva severamente “bastonato” e indotto a un comportamento più consono.
Si può concludere dicendo che il rispetto è un valore fondamentale ed il suo significato, ad eccezione di quanto detto sopra, si riduce nel detto «fai quello che ti dicono e non fare quello che fanno», ma, realisticamente, è preferibile una situazione di potere elitistico-assolutistica, in cui esiste una figura fondamentale di riferimento, piuttosto che la guerra di tutti contro tutti? A conclusione di questo lavoro si cercherà di dare una risposta a questa domanda.
Un altro importante valore è l’omertà. Che cos’è? È una solidale intesa che vincola i membri della malavita alla protezione vicendevole, tacendo o mascherando ogni indizio o prova utile per l’individuazione dei colpevoli. Spesso si è omertosi per paura, solidarietà, difesa di interessi personali, ecc. Nella cultura meridionale è un valore fondamentale perché implica la sottomissione alle regole delle varie organizzazioni mafiose. Come il rispetto, l’omertà è un elemento essenziale, senza il quale non avrebbero senso molte delle regole che saranno prese in considerazione nei prossimi paragrafi.
Oltre ai due valori principali esistono, come nella società libera, anche altri valori soggettivi, che dipendono soprattutto dalla cultura di provenienza di ogni singolo detenuto: solidarietà, amicizia, libertà, uguaglianza, dignità della persona, famiglia, giustizia e altri. Più che in passato, quando era meno differenziata al suo interno, anche la comunità carceraria è caratterizzata dal pluralismo dei valori. Tali valori possono essere in conflitto tra di loro e l’individuo si trova sovente in situazioni di dilemma etico. Ad esempio, succede che il valori della solidarietà verso i più deboli e della libertà entrino in conflitto con quello dell’omertà. Sono infinite le situazioni in cui i detenuti sono costretti a scegliere tra valori ai quali danno comunque molta importanza.
3. Le norme comunitarie e il potere
Per comprendere il senso della vita del carcere si deve guardare ad ogni istituto penitenziario come ad una società nella società. Gli individui rinchiusi insieme per un lungo periodo di tempo danno vita ad un micro-sistema sociale capace di sviluppare, nel limite dell’ordine sociale imposto dalle Istituzioni e dalleguardie, un proprio peculiare ordine informale, cioè basato su regole non scritte, che si tramandano di generazione in generazione, che per semplicità chiamiamo “norme comunitarie”.
Le domande che è necessario porsi a questo punto sono: «quali sono le norme?», «chi è legittimato a farle?», «sono riconosciute e rispettate da tutti?», «quali sono le sanzioni?».
Ciò che in questo lavoro si vuole considerare non è il regolamento penitenziario, ma quelle regole che ci sono ma non si vedono, quelle regole che molto spesso neanche gli agenti conoscono ma sanno che esistono, quelle regole che un detenuto già “esperto” ha interiorizzato così bene che non riesce a distaccarsi mai con la mente e che un “pivello” è costretto a fare sue se non vuole incorrere in qualche sanzione. Chi è legittimato a farle rispettare? Tutti indistintamente, purchè non siano dei “devianti”. Questo è il motivo per cui sono molto oppressive, rispetto a quelle civili informali. Tutti osservano tutto e tutti, niente passa inosservato, dalla infrazione più piccola alla più grande. Il detenuto è al centro di una pressione molto alta derivante dal fatto che è costretto a vivere in ambienti molto piccoli e non riesce a isolarsi; gli occhi sono tutti su di lui, continuamente nell’arco di tutta la giornata. Addirittura anche il linguaggio è controllato, caratterizzato in modo tale che tutti si sentono costretti ad esprimersi, in determinate situazioni, allo stesso modo.
Le sanzioni vanno dal semplice richiamo, passando dalla stigmatizzazione alla pena corporale e l’allontanamento dalla sezione o padiglione di riferimento.
Nessuno è in grado di dire con certezza chi è stato il primo detenuto che ha imposto una norma che sia stata valida per tutti. Si può però immaginare che tutte le regole che più avanti verranno discusse derivano dalla pratica carceraria, rese necessarie dalle ristrettezze dei luoghi e dalla moltitudine delle persone che vi convivono in essi. Le norme nascono dalla necessità di regolare un ambiente in cui prevale la legge del più forte, per mantenere “ordine e disciplina”. L’imposizione di una persona o di un gruppo è stata necessaria nel tempo al fine di evitare che la comunità possa trovarsi in una situazione di anarchia, con conseguente sottomissione dei più deboli. Credo che lo spirito originario delle norme fosse proprio questo: evitare la legge del più forte, rispettando in tutto e per tutto l’individuo in quanto tale. Vedremo, poi, che questo spirito è sempre più venuto meno, e il concetto di “rispetto” è stato alquanto alterato nel suo vero significato. Molte regole sono espressione della subcultura criminale, ma ci sono anche altre che provengono dalla cultura civile, come quelle di buona educazione; ma anche queste, vedremo, sono molto enfatizzate e rigorosamente rispettate e fatte rispettare.
Rispettare le regole implica la presenza di qualcuno che detenga il potere. Dato che la fonte regolamentare informale è l’ambiente mafioso, il potere è nelle mani di quei personaggi che si identificano in esso (anche se la tendenza sta cambiando, come si vedrà più avanti); è un potere assolutistico o, se vogliamo, “elitistico” e gerarchico piramidale, composto da una sola persona o da un gruppo. Le regole sono date, sempre le stesse, non ci sono di nuove. Anche se, in teoria, il vertice ha il potere di imporre di nuove, è difficile che lo faccia, si limita a far rispettare quelle esistenti, magari interpretandole in modo diverso, a seconda della situazione o della convenienza.
I detentori del potere non sono lontani dalla comunità, anzi sono perennemente presenti, vedono tutto e oltremodo sospettosi, passeggiano in cortile insieme agli altri, solitamente loro sottoposti. Un “nuovo giunto” non può non sapere chi sono; sono lì a dimostrare la loro autorità con atteggiamenti che non lasciano dubbi, sembra che anche il loro passo sia diverso; addirittura nei primi anni Novanta si riconoscevano dalle mani piene di grossi anelli d’oro, oggetti che altri non potevano avere (oggetti di valore sono tassativamente vietati dal Regolamento Penitenziario).
Solitamente i vertici del potere cambiano con il cambio generazionale, ma dopo le stragi dell’estate del 1992 dove persero la vita i Giudici Falcone e Borsellino, il d. l. 306 del 1992, convertito nella l. 356 del 1992, ha inserito il comma 2 nell’art. 41 bis il quale dispone che nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti previsti dall’art. 4 bis comma 1 (i c. d. delitti di stampo mafioso e altri delitti di particolare gravità), il ministro della giustizia, dove ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, ha facoltà di sospendere, anche su richiesta del ministero dell’interno, l’applicazione delle regole del trattamento che possono porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza. Il nuovo istituto[ …] sembra trovare la sua ragione esclusivamente nell’esigenza di impedire che i detenuti per delitti di stampo mafioso possano avere collegamenti con il mondo esterno o relazioni interne tali da consentire la programmazione e l’attuazione di ulteriori attività criminose[4].
Tale legge ha funzionato come una sorta di spartiacque. Il potere ha subito dei radicali cambiamenti: i grandi boss mafiosi non sono più insieme ai detenuti comuni e questo ha consentito una tendenza alla desuetudine di alcune regole, anche se molto lenta; e poi il potere non è più in mano ad un gruppo verticistico, ma è diffuso. Da una parte questa situazione ha allentato un po’ le maglie del potere inglobante che c’era in passato, dall’altra tende a causare (in alcuni casi ha già causato) una sorta di anarchia in cui tutti possono pretendere di comandare. Basta che ci siano due pareri discordi riguardo al potere che subito nascono dei contrasti potenzialmente pericolosi per tutta la comunità carceraria.
L’assenza di un potere fortemente centralizzato ha portato alla consapevolezza che ognuno è uguale all’altro e che nessuno ha il diritto di imporre qualcosa ad un suo simile. Tutti sono nella stessa barca e tutti possono tutto, nel limite del rispetto personale. È necessario sottolineare che tali potenziali conflitti per il potere sono avvenuti, avvengono o possono avvenire all’interno di una cerchia ristretta di detenuti, cioè coloro che si sentono “legittimati” o dall’appartenere ad ambienti malavitosi (ciò avviene spesso nelle carceri del sud dove è più radicata una matrice di tale stampo), oppure dal fatto di essere in un certo senso gli “anziani”, per via della lunga carcerazione fatta o da fare ancora. La situazione tende a cambiare velocemente, nel senso che nella “discussione conflittuale” per il potere si è aggiunto un nuovo soggetto che in passato era molto più isolato, non aveva visibilità e non era nelle condizioni di competere: la maggioranza della popolazione, impotente fino ad oggi per via dello strapotere “assolutistico” esercitato in modo egoistico, grazie anche ad una legislazione che ha permesso l’allontanamento di figure fondamentali nel panorama della lotta al potere. Questa non è intesa qui come uno scontro fisico o come scontro dialettico. È una lotta latente che si sviluppa attraverso un processo naturale, in cui si diffondono nuove idee del vivere comunitario volte più a cercare la tranquillità individuale che il potere sugli altri. Naturalmente ha contribuito a questo il cambio generazionale, una diversa cultura dei “pivelli”, più esuberanti e meno attaccati ai vecchi valori malavitosi tradizionali, ma anche la “saggezza” di detenuti “anziani”, i quali, individualisticamente, tendono a percepire questo cambiamento in modo positivo.
Ricordo che al mio primo giorno di carcerazione, tredici anni fa, si avvicinò un anziano detenuto, un vecchio saggio, e mi disse:«Ricordati! Fai quello che dicono e non fare quello che fanno». Lui ne aveva viste di tutti i colori e cercava di avvertire tutti i “pivelli” che passavano dalla sua cella che non sarebbe stata una passeggiata. Questa frase riassume nella sua crudezza il peso che aveva sulle persone quel vecchio potere. Un potere ancora più inglobante di quello che si può immaginare che sia quello della burocrazia carceraria.
Oggi questo potere si è un po’ attenuato ed è nata una sorta di «uguaglianza delle condizioni»[5] che genera sentimenti di invidia tra i detenuti e ciò provoca molto spesso contrasti molto forti tra gli individui. Ognuno pensa al proprio orticello in vista dei benefici possibili e cerca di trovare la strada più corta per arrivarci, anche se ciò può essere a danno di altri. Molte volte succede razionalmente, altre inconsapevolmente. Manca quella “forzata” solidarietà di massa che esisteva nel vecchio “regime”.
C’è un altro elemento da considerare che riguarda i gruppi che detengono il potere “informale ma legittimo” in carcere: l’assenza della pax mafiosa all’esterno che ha generato caos e disordine anche all’interno. Prima della legge sopra citata regnava una specie di accordo tra i vari gruppi mafiosi che operavano all’esterno del carcere, nella società civile. Naturalmente questo si rifletteva all’interno del carcere e tutti erano d’accordo su chi doveva dominare, anche se ad altri gruppi diversi era riservato un certo potere. Dopo il 1992 le lotte sanguinose tra gruppi malavitosi hanno permesso una totale anarchia e chi ne ha pagato le conseguenze sono stati sempre i detenuti non affiliati (i cosiddetti “boni vaglioni”) sottoposti ad una continua e indiscriminata repressione. Avere il potere in carcere vuol dire disporre degli individui a proprio piacimento, interpretare le regole a seconda della convenienza, essere servito come facevano i padroni con i loro servitori. I boni vaglioni erano messi nelle condizioni di decidere se affiliarsi o essere emarginati. Tutti i contrasti tra gruppi mafiosi all’interno si risolvevano in risse furibonde, e anche accoltellamenti, con la conseguenza che le varie Amministrazioni erano costrette a ridimensionare i diritti e la libertà di movimento di tutta la comunità: meno ore di passeggio, chiusura della biblioteca, ridimensionamento del vestiario proveniente dai colloqui con i familiari, ed altro; senza contare che questa situazione influiva moltissimo sull’accesso alle misure alternative, alle quali cercavano di fare ricorso per lo più i boni vaglioni.
Oggi la situazione è molto cambiata, ma al sud ancora esistono lotte all’interno dei gruppi per il potere, anche se esiste più autonomia da parte di quei detenuti che non si riconoscono in alcun gruppo, o almeno dicono di non riconoscersi: in passato si sbandierava ai quattro venti la propria appartenenza, oggi si cerca di nasconderla. Le regole sono rimaste le stesse, un po’ meno enfatizzate rispetto al passato, ma hanno una valenza simbolica molto importante.
Il disegno di legge del 1992 ha anche influenzato l’atteggiamento degli amministratori delle carceri. In passato non erano rari i casi in cui c’era una sorta di accordo tacito tra detenuti e Amministrazione. I detenuti più rappresentativi, più carismatici, facilmente identificabili tra i boss o tra gli esperti, si sentivano addosso la responsabilità di tenere l’ordine e la disciplina nell’ambito della comunità, in cambio di una presenza meno vistosa degli agenti. Ho assistito spesso a situazioni in cui l’agente o un suo superiore si sia recato ad un detenuto particolare chiedendogli di agire su altri, colpevoli di destabilizzare l’ordine comunitario. Negli anni 1992-93, nel carcere di Bari, per esempio, la sensazione che il potere mafioso era molto più forte di quello istituzionale era molto evidente, ma non perché quello istituzionale non esistesse o fosse subordinato a quello mafioso; semplicemente perché, per osteggiare comportamenti scorretti, interveniva prima il potere dei detenuti. Se, per esempio, un carcerato poneva in essere un comportamento scorretto nei riguardi delle “guardie”, le stesse si rivolgevano ad altri detenuti affinché questi risolvessero la situazione in modo pacifico (si fa per dire), evitando l’intervento sanzionatorio istituzionale.
Gradualmente, dopo il 1992, la situazione è andata modificandosi. L’assenza di punti forti di riferimento per i detenuti ha condotto i reclusi ad avere un atteggiamento diverso sia verso le norme sia nel rapporto interindividuale. Non solo. Anche l’Amministrazione penitenziaria ha avuto un approccio diverso nel contenere i disordini all’interno. Anche se già esistevano prima, ha cominciato ad usare a proprio vantaggio, o a vantaggio dell’ordine, strumenti quali le sanzioni e i benefici istituzionali (rapporti disciplinari o encomi) che hanno contribuito a dividere ancora di più i detenuti nelle loro scelte e a creare un atteggiamento individualistico, egoistico, che ha scosso la “vecchia” solidarietà tra carcerati.
[1] Park R., (1928), in Berzano L., Prina F., Sociologia della devianza, pag. 70, Carocci Faber, Roma.
[2] Ibidem.
[3] Zingarelli N., (2005), Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli editore, Bologna.
[4] Grosso C. F., Neppi Modona G., Violante L., (2002), Giustizia penale e poteri dello Stato, Garzanti libri, pag. 702, Milano.
[5] Tocqueville A. de, La democrazia in America, (1835-40), in Bedeschi G., (1996), Il pensiero politico di Tocqueville, Editori Laterza, Bari; anche in Bravo G. M., Malandrino C., Profilo di storia del pensiero politico, Carocci editore, Roma; e in Matteucci N., (1990), Alexis de Tocqueville, Il Mulino Ricerca, Bologna.
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