lunedì 5 marzo 2012

UN CHIODO FISSO.


Io ho una fissazione: l’universo carcerario può essere descritto soltanto da chi lo vive e, se devo essere sincero e un po’ di parte, principalmente da chi subisce la pena. La grande massa dei cittadini non lo conosce e non si preoccupa di conoscerlo, semplicemente perché lo ritiene un mondo lontano che non lo riguarda. D’altra parte anch’io ero così, avevo la mia vita, famiglia, moglie, lavoro, tutto ciò che desideravo, ma poi puff, il carcere.
Da giovane mi sono nutrito di letture di sinistra, ma devo il mio eclettismo culturale alla mia condizione di autodidatta. Sostanzialmente mi ritengo ancora un ignorante, ma il tempo che potevo sottrarre al lavoro lo dedicavo alla lettura di saggi di politica, storia, sociologia e anche di psicologia. Quando non capivo qualche termine andavo in biblioteca, prendevo un manuale e alimentavo la mia conoscenza.
Da quando sono in questo carcere, ciò che più mi ha sottratto tanto tempo libero è stata la sociologia, anche se studiavo scienze politiche. Credo di aver letto centinaia di libri, saggi, riviste specializzate che riguardano il mondo del carcere in generale e la criminologia di stampo sociologico in particolare. Credo che il mio sapere su questo argomento sia di discreto livello conoscitivo, ma ho sempre cercato di tenerlo nascosto al di fuori dell’ambito universitario. Io sono da studiare, non uno studioso. Sono un carcerato e le mie teorie sul carcere, anche se professionalmente corrette o giuste, non possono che passare in secondo piano. Trovo odioso, però, ascoltare tante cazzate politico-mediatiche che non hanno alcun fondamento teorico. L’altra sera, per esempio, in una famosa trasmissione un deputato ha fatto una affermazione a dir poco sconvolgente, ed ha avuto anche il coraggio di legittimarla con i numeri: «In carcere i detenuti possono imparare un mestiere… » e via con un numero, «possono studiare…», un altro numero, «… e reinserirsi nella società». Che belle parole! E che bella figura che ha fatto l’onorevole. Nessun ospite, seppur sedicente esperto – c’era un criminologo, la solita faccia, un giornalista so-tutto ed una psicologa non-mi-toccare-che-son-di-vetro – ha contestato le sue cifre. «I numeri sono numeri» si dice. Incontestabili! E’ vero solo se sono completi e interpretati scientificamente. Il deputato ha fatto intendere che tutta la popolazione detenuta svolgesse una qualche attività all’interno degli istituti di pena, perché mai ha fatto riferimento al numero totale della popolazione carceraria; se lo avesse fatto avrebbe visto frantumarsi tutta la sua teoria del carcere risocializzante, in quanto i detenuti che lavorano o che svolgono una qualche attività trattamentale sono una minima percentuale  rispetto alla totalità. Ciò che è più preoccupante è che è passato un messaggio volutamente falso, che non corrisponde alla realtà, complici un giornalismo bacchettone e una corte di esperti accomodante.
In trasmissione c’era anche un ex-detenuto che si dichiarava pentito del suo passato e che grazie al personale penitenziario aveva trovato la strada giusta per ricominciare. Strumentalizzare il percorso legittimo e sacrosanto di riconversione di una persona per legittimare un carcere che è indifendibile dal punto di vista del reinserimento sociale vuol dire che siamo alla frutta, considerato che tutti gli studi specialistici unanimemente hanno confermato che il carcere, così come è strutturato, non può tendere alla rieducazione o risocializzazione del condannato ma, anzi, è una scuola di criminalità. G. M. Sykes ci ha insegnato che il detenuto assume la sub-cultura legata a valori criminali più che quella conformistica legata ai valori sociali predominanti. I dati sulla recidiva lo confermano. Il detenuto “televisivo” rappresenta solo una goccia in un mare di disperazione e di povertà sociale e culturale, oltre che materiale.
Mistificare la realtà purtroppo è una prassi consolidata quando si parla di carcere. In caso contrario si dovrebbe affermare il fallimento del sistema carcerario e pensare ad un’altra modalità di esecuzione della pena, come sostengono da tempo gli abolizionisti. Ma mantenere in vita il carcere ha anche una funzione simbolica: divide i buoni dai cattivi, i reietti dalle “persone perbene”, i ladri dai lavoratori, gli assassini dalle vittime, i truffatori dagli onesti. «Mettiamoli tutti sotto chiave e vedrete che le persone perbene si sentiranno più al sicuro». È questo il tipico ragionamento poco lungimirante che fa presa su quella parte di opinione pubblica inconsapevolmente ignorante, timorosa del diverso e di tutto ciò che non conosce.
Provate ad immaginare centinaia di migliaia di persone rinchiuse per sempre. Bisognerebbe costruire almeno un carcere grande quanto un paese di 5000 abitanti all’anno. Costruiamo anche dei cimiteri all’interno del muro di cinta, a cosa serve portarli fuori dopo la morte? È chiaro che questo è un discorso fantastico – direi fantascientifico – ma spesso la realtà supera la fantasia.

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