La dignità umana viene lesa
continuamente e ci sarebbero centinaia, se non migliaia, di ricorsi alla
Magistratura di Sorveglianza se non fosse che tale azione comporterebbe
automaticamente un giudizio negativo da parte dell’equipé trattamentale nella
stesura della relazione sulla “osservazione scientifica della personalità”,
strumento ritenuto essenziale ai fini della valutazione per la richiesta di
qualunque beneficio premiale o misura alternativa.
La conseguenza è che la persona
detenuta rinuncia (se non in casi particolari o estremi, nonché quando le altre
strade, anche informali, non hanno avuto esito positivo) da una parte al
ricorso alla Magistratura di Sorveglianza per far valere i propri diritti e
dall’altra al suo modo di essere persona con una sua dignità. Così sarà
costretta a “farsi furba”, o, se vogliamo “ipocrita”, e utilizzare quei canali
interstiziali tra le pieghe del sistema per aumentare le probabilità che le sue
richieste vadano a buon fine. Ciò che nel gergo carcerario viene inteso come
furbizia, può essere inteso come la capacità dei singoli di procurarsi le risorse
necessarie (Piotto 1999) e quindi la necessità di ognuno di estendere il
proprio spazio di influenza in un sistema fondato sulle regole, sui privilegi e
sulle punizioni. Da questo punto di vista, secondo Buffa (2006), “tutti gli
attori in gioco cercano di catturare notizie per utilizzarle nei rapporti
quotidiani, perché ognuno cerca di controllare le proprie incertezze e le azioni
degli altri, e in tal modo, cerca di estendere il proprio spazio di influenza”.
Così l’informazione diventa “un elemento strategico nella dinamica
penitenziaria”.
Mettere l’accento sul concetto di
furbizia non è fuori luogo. La ricerca continua di spazi di influenza è la conditio sine qua non per organizzare la
propria vita all’interno con una attenzione a raggiungere i propri scopi personali,
siano essi una semplice richiesta che riguarda aspetti interni della vita
quotidiana siano essi concernenti richieste di benefici premiali o misure
alternative.
Tale atteggiamento se da una parte è
la condizione necessaria perché la persona abbia maggiori possibilità in
relazione alle sue legittime aspettative, dall’altra, se volgiamo lo sguardo
alla totalità della popolazione detenuta, ha effetti negativi, innanzitutto dal
punto di vista morale perché sottolinea, se ancora ce ne fosse bisogno, le
ineguaglianze sostanziali che lo stesso sistema produce, contraddicendo la
lettera degli artt. 1 e 3 della legge 26 luglio 1975, n. 354. Inoltre permette
di aggirare la prassi (fare la domandina per qualsiasi richiesta) che “dovrebbe
essere” lo strumento burocratico per amministrare, regolare e sfoltire le
richieste dei detenuti.
C’è un aspetto psicologico che viene spesso
trascurato quando si fa riferimento ad un sistema di privilegi: l’autosospensione della propria dignità,
che può essere intesa come il lato oscuro, o la conseguenza implicita, dell’utilizzo
di canali informali o interstiziali. Autosospendersi dall’essere se stessi vuol
dire mettere da parte volontariamente
la pretesa di essere considerati “persone” e spesso accettare di essere umiliati
con la conseguenza pratica di diventare accondiscendenti, accettando “opportunisticamente” di essere guidati,
manipolati e “rieducati”. L’opportunismo, inteso come reazione per
controbilanciare la perdita della dignità, è di tipo “razionale” (“Faccio lo scemo per non andare in guerra”).
Nella sostanza la persona detenuta è disposta a mettere in discussione la
propria dignità pur di perseguire i suoi scopi situazionali.
L’opportunismo è anche indice di conflitto
psicologico ogni qualvolta la persona detenuta viene a trovarsi in situazioni in
cui deve quantificare costi e benefici derivanti dai differenti comportamenti
che egli stesso può mettere in atto in determinate situazioni; costi e benefici
che spesso non possono essere valutati sul momento ma sono nominali, cioè
riguardano aspettative per il futuro. Situazioni di conflitto personali vengono
a crearsi continuamente e le scelte non sono così facili poiché la dignità è un
valore non facilmente scambiabile – e non tutti sono disposti a farlo – con una
maggiore probabilità di accedere a risorse informative necessarie per
l’organizzazione della propria vita interna.
Come Goffman (1968) ha ben
evidenziato, l’istituzione totale è organizzata in reparti che definiscono il
sé di una persona e Buffa (2006), direttore del carcere di Torino, riprendendo
tale concetto, ha evidenziato che “difficilmente i detenuti con meno capacità e
risorse personali scontano la pena nei reparti migliori e maggiormente dotati
di opportunità trattamentali”. Ciò spinge i meno dotati ad utilizzare pratiche
di delazione che li mettono in contrasto con il resto della comunità
carceraria.
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