lunedì 5 marzo 2012

IL LATO OSCURO DEL CARCERE.


La dignità umana viene lesa continuamente e ci sarebbero centinaia, se non migliaia, di ricorsi alla Magistratura di Sorveglianza se non fosse che tale azione comporterebbe automaticamente un giudizio negativo da parte dell’equipé trattamentale nella stesura della relazione sulla “osservazione scientifica della personalità”, strumento ritenuto essenziale ai fini della valutazione per la richiesta di qualunque beneficio premiale o misura alternativa.
La conseguenza è che la persona detenuta rinuncia (se non in casi particolari o estremi, nonché quando le altre strade, anche informali, non hanno avuto esito positivo) da una parte al ricorso alla Magistratura di Sorveglianza per far valere i propri diritti e dall’altra al suo modo di essere persona con una sua dignità. Così sarà costretta a “farsi furba”, o, se vogliamo “ipocrita”, e utilizzare quei canali interstiziali tra le pieghe del sistema per aumentare le probabilità che le sue richieste vadano a buon fine. Ciò che nel gergo carcerario viene inteso come furbizia, può essere inteso come la capacità dei singoli di procurarsi le risorse necessarie (Piotto 1999) e quindi la necessità di ognuno di estendere il proprio spazio di influenza in un sistema fondato sulle regole, sui privilegi e sulle punizioni. Da questo punto di vista, secondo Buffa (2006), “tutti gli attori in gioco cercano di catturare notizie per utilizzarle nei rapporti quotidiani, perché ognuno cerca di controllare le proprie incertezze e le azioni degli altri, e in tal modo, cerca di estendere il proprio spazio di influenza”. Così l’informazione diventa “un elemento strategico nella dinamica penitenziaria”.
Mettere l’accento sul concetto di furbizia non è fuori luogo. La ricerca continua di spazi di influenza è la conditio sine qua non per organizzare la propria vita all’interno con una attenzione a raggiungere i propri scopi personali, siano essi una semplice richiesta che riguarda aspetti interni della vita quotidiana siano essi concernenti richieste di benefici premiali o misure alternative.
Tale atteggiamento se da una parte è la condizione necessaria perché la persona abbia maggiori possibilità in relazione alle sue legittime aspettative, dall’altra, se volgiamo lo sguardo alla totalità della popolazione detenuta, ha effetti negativi, innanzitutto dal punto di vista morale perché sottolinea, se ancora ce ne fosse bisogno, le ineguaglianze sostanziali che lo stesso sistema produce, contraddicendo la lettera degli artt. 1 e 3 della legge 26 luglio 1975, n. 354. Inoltre permette di aggirare la prassi (fare la domandina per qualsiasi richiesta) che “dovrebbe essere” lo strumento burocratico per amministrare, regolare e sfoltire le richieste dei detenuti.
C’è un aspetto psicologico che viene spesso trascurato quando si fa riferimento ad un sistema di privilegi: l’autosospensione della propria dignità, che può essere intesa come il lato oscuro, o la conseguenza implicita, dell’utilizzo di canali informali o interstiziali. Autosospendersi dall’essere se stessi vuol dire mettere da parte volontariamente la pretesa di essere considerati “persone” e spesso accettare di essere umiliati con la conseguenza pratica di diventare accondiscendenti, accettando  “opportunisticamente” di essere guidati, manipolati e “rieducati”. L’opportunismo, inteso come reazione per controbilanciare la perdita della dignità, è di tipo “razionale” (“Faccio lo scemo per non andare in guerra”). Nella sostanza la persona detenuta è disposta a mettere in discussione la propria dignità pur di perseguire i suoi scopi situazionali.
L’opportunismo è anche indice di conflitto psicologico ogni qualvolta la persona detenuta viene a trovarsi in situazioni in cui deve quantificare costi e benefici derivanti dai differenti comportamenti che egli stesso può mettere in atto in determinate situazioni; costi e benefici che spesso non possono essere valutati sul momento ma sono nominali, cioè riguardano aspettative per il futuro. Situazioni di conflitto personali vengono a crearsi continuamente e le scelte non sono così facili poiché la dignità è un valore non facilmente scambiabile – e non tutti sono disposti a farlo – con una maggiore probabilità di accedere a risorse informative necessarie per l’organizzazione della propria vita interna.
Come Goffman (1968) ha ben evidenziato, l’istituzione totale è organizzata in reparti che definiscono il sé di una persona e Buffa (2006), direttore del carcere di Torino, riprendendo tale concetto, ha evidenziato che “difficilmente i detenuti con meno capacità e risorse personali scontano la pena nei reparti migliori e maggiormente dotati di opportunità trattamentali”. Ciò spinge i meno dotati ad utilizzare pratiche di delazione che li mettono in contrasto con il resto della comunità carceraria.  


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