martedì 6 marzo 2012

LA PRATICA DELLA VITA CARCERARIA (Parte II)


4 Tipologia delle norme
   Tutte le norme che saranno analizzate nei prossimi paragrafi hanno in comune i valori del rispetto dell’omertà, così come sono stati intesi precedentemente. Così nascono quelle regole che possiamo definire “comunitarie” (il termine è usato semplicemente per differenziarle da quelle giuridiche o istituzionali), che si differenziano, a loro volta, in prescrittive e in proscrittive.

                         RISPETTO/OMERTA’  →  REGOLE COMUNITARIE


                                                            prescrittive                    proscrittive
                                                                                 ↓                                  ↓
                                                                    sanzioni leggere           sanzioni pesanti

Quelle prescrittive sono le norme della buona educazione, le regole che riguardano la tavola, l’igiene personale e ambientale, molte delle regole degli spazi in comune, soprattutto dell’aria; le normeproscrittive, come si sa, sono quelle che vietano un comportamento. Rientrano in questo contesto soprattutto quelle che riguardano i rapporti con lo staff carcerario, agenti in particolare, ma riguardano anche i rapporti fra detenuti, soprattutto se si tratta di un tipo di linguaggio da usare, o non usare. Si vedrà anche quali potranno essere le sanzioni a cui si va incontro se trasgredite. Queste vanno dalla semplice stigmatizzazione del soggetto deviante all’allontanamento dalla comunità dello stesso o alla pena corporale. Solitamente la trasgressione delle norme prescrittive produce sanzioni leggere, come il semplice biasimo e richiamo verbale, mentre trasgredendo a quelle proscrittive si va incontro a sanzioni anche molto pesanti, come la cosiddetta “cappotta”. Più avanti si vedrà di cosa si tratta. La maggiore severità delle norme proscrittive rispetto a quelle prescrittive dipende soprattutto dal fatto che le prime riguardano trasgressioni che mettono in discussione i valori fondanti della comunità, come l’omertà e il rispetto. Il non salutare potrà provocare una reazione di indignazione, ma denunciare un atto o il protagonista dell’atto è percepito come un attentato ai valori sui quali ruota tutta la subcultura carceraria (vedi par. 3.6, la funzione delle sanzioni).
  Non è possibile stilare un elenco. Tuttavia ci sono regole che sono, direi quasi, “costitutive” che sono alla base di ogni rapporto tra detenuti, per cui sono le più importanti, come si vedrà più avanti quando saranno analizzate nel loro contesto. In questa sede è importante sottolineare che tutte, come detto sopra, sono informali ma rivolte a tutti e accettate, loro malgrado, da tutti. È nella pratica che bisogna analizzare tutte le norme, facendo degli esempi concreti, direttamente vissuti da un “esperto non etichettabile”, quale io ritengo di essere. Diversamente non sarà facile coglierne il senso, ma soprattutto non si può comprendere la forza perversa che hanno nell’animo del detenuto, il loro dirompente saccheggio della psiche, dello spirito e del pensiero umano.
   Sarà difficile per un “esterno” immedesimarsi nella realtà del carcere. Molti teorici hanno studiato il mondo carcerario, ma credo che l’«osservazione partecipante» sia essenziale per comprendere meglio la realtà carceraria, soprattutto se l’osservatore è parte integrante della comunità. Anche se l’analisi non potrà essere certo neutrale, sarà il più possibile obiettiva.  
   Prima di addentrarci nel mondo della pratica delle norme, è necessario fare un appunto. Le regole che saranno via via trattate sono frutto della mia esperienza vissuta principalmente nelle carceri della Puglia, in cui fino al 1997 si viveva in celle di 25/30 metri quadrati in 12-15 persone, o in celle un po’ più grandi ma con 20-25 detenuti: il carcere di Bari, oggi ristrutturato, l’ex carcere “Villa Bobò” di Lecce, chiuso dall’inizio del 1997 a causa dell’apertura di uno nuovo e il carcere di Taranto. Per cui le regole che riguardano l’ambito delle celle si riferiscono al periodo prima del ’97. Oggi in cella ci si sta in due o tre (sempre troppi comunque, per via degli spazi molto ristretti), per cui soprattutto le regole che riguardano l’ambito delle celle hanno poco valore oggi o sono cadute in desuetudine, anche se ci sono realtà che ancora rispecchiano il vecchio regime, soprattutto nei carceri di antica costruzione, in cui le celle sono ancora una sorta di cameroni di caserma.

      5. Le regole della buona educazione nella monotonia quotidiana

   Si è detto all’inizio del capitolo che i reclusi fanno parte di un micro-sistema sociale capace di sviluppare, considerando che esiste un Regolamento Penitenziario, una propria serie di regole non scritte, condivise da tutti e rivolte a tutti. Molte provengono dalla società civile e sono quelle di buona educazione, con la differenza che ne viene enfatizzata la forma. Dire “buongiorno”, per esempio, quando si entra in un locale o quando si esce, è segno di buona educazione, è una regola implicita, ed è difficile che qualcuno rinfacci il fatto di non averlo detto, anche se una reazione sociale esiste comunque. In carcere il non salutare è ritenuto un atto grave di maleducazione, per cui se non lo fai ti senti dire «Con chi sei stato in carcere? Nessuno ti ha insegnato che il saluto si toglie solo agli infami?». Succede molto spesso ai “pivelli”. Si noti quel “con chi sei stato in carcere” che evidenzia l’educazione non impartita da parte di quelle persone “esperte” che avrebbero dovuto insegnarla. Come se il mondo fuori non esistesse, come se l’educazione fosse monopolio del carcerato. La persona che riceve questo tipo di richiamo si sente offesa nel proprio intimo, consapevole però che non può fare niente per ribattere perché capisce subito che deve adattarsi ed imparare il significato simbolico del linguaggio; lo comprende dalla seconda parte del richiamo (“il saluto si toglie solo agli infami”). L’infamità, ossia la disposizione individuale a denunciare un proprio compagno alle autorità, è il grado più alto di “devianza tra devianti”; questa parola e i suoi derivati ricorrono molto spesso nel linguaggio carcerario e, a volte, anche non nel loro significato originario.
   Capita spesso a chi è soprappensiero di non salutare; non è cattiva educazione, e nella società civile  è tollerato. Anche ai vecchi carcerati capita ma, a differenza di altri, ci si rivolge loro diversamente, soprattutto se si è sicuri della loro buona fede: «Buongiorno!!!», rafforzando di molto il tono della voce. È un modo soft per dire le stesse cose. Solitamente la risposta è quella di chiedere scusa.
   Le “buone maniere” non riguardano soltanto il saluto. Per esempio, il sedersi a tavola ha una simbologia particolare che non ha niente a che fare con il bon ton, ma piuttosto con il potere delcapocella di turno (Solitamente è una persona “di rispetto”, ma può essere anche un anziano o un “esperto” di galera).
   La disposizione dei posti a tavola è gerarchica: c’è il capo-tavola e al suo fianco le sue persone di fiducia, i suoi “ragazzi”; gli altri vengono disposti secondo un ordine dettato dal capo-tavola e tassativamente rispettati per sempre; naturalmente le persone in fondo al tavolo sono le meno considerate. Addirittura, una tipologia di punizione può essere quella di far scalare un componente verso il basso, che è la parte opposta al posto principale. Di fronte, dal lato opposto della tavola non ci deve essere nessuno, in quanto, essendo disposta la tavola verticalmente al cancello d’ingresso (il “blindo” deve essere tassativamente accostato o chiuso), nessuno deve poter rivolgere le spalle a chi potrebbe presentarsi fuori dalla cella per qualsiasi motivo, agenti compresi. E il capocella deve poter avere sempre la visuale libera.
   Preparare la tavola, sedersi e, alla fine del pranzo, alzarsi è tutto un rito, con gesti, movimenti e linguaggio che sottolineano, quasi che ce ne fosse bisogno, la supremazia di “uno” su tutti. È frustrante ed evidenzia ancora di più l’impossibilità per l’individuo di sottrarsi al processo di prigionizzazione di cui si è parlato sopra.
   Le regole della cella e in particolare quelle della tavola, sono le prime che un “nuovo giunto” impara, semplicemente stando a contatto con gli altri. Nei primi due o tre giorni al nuovo non gli è permesso di preparare la tavola. È considerato ancora un ospite e può approfittare per scrutare i movimenti di coloro che la preparano: la disposizione anche delle posate, delle bottiglie o quant’altro. Se il “nuovo giunto” è un pivello, cioè uno che entra per la prima volta in un carcere, c’è sempre qualcuno (di solito uno degli ultimi arrivati) che è disposto a spiegargli praticamente il da farsi. In una cella composta da parecchie persone, solitamente la tavola viene preparata da almeno un paio di persone, a turno; le posate alla destra del piatto, su un tovagliolo, i bicchieri davanti al piatto, le bottiglie a centro tavola. Se c’è della bevanda diversa dall’acqua, non sufficiente per tutti, naturalmente viene posta di fronte al piatto del capo-tavola. Non si deve dimenticare il pane, che simboleggia l’abbondanza, in quanto «non si può chiamare tavola se non c’è il pane». Anche la posizione del pane è molto importante: tassativamente nella sua posizione “naturale”, cioè la parte rigonfia rivolta verso l’alto. Al contrario, è segno di sfortuna (personalmente, pensavo fosse una novità; cercando materiale per questo lavoro ho imparato che anche nel mondo esterno la posizione “innaturale” del pane è oggetto di scaramanzia). Quando è tutto pronto ci si può sedere a tavola ma non prima che il cuciniere abbia riempito i piatti. Anche lui deve sedersi insieme agli altri dando vita ad un principio ― valevole anche in altri ambiti, anche se spesso è disatteso proprio da chi dovrebbe farlo rispettare, per esempio facendosi fare il letto tutte le mattine ― secondo cui “non è il servo di alcuno”. Nessuno si può sedere a tavola se prima non si è seduto il principale convitato e nessuno può cominciare a mangiare prima che lo stesso abbia detto «buon appetito» e gli altri, quasi in coro, si siano limitati a dire «lo stesso». Nessuno può usare la stessa espressione del capo-tavola (anche questo divieto oggi va scomparendo). Anche questo semplice passaggio enfatizza la forma, quasi per ricordare chi è che comanda.
   Servire un secondo piatto è la continuazione dello stesso rito: prima il “capo” poi tutti gli altri, ma non facendo il giro del tavolo, perché così facendo chi è alla destra o alla sinistra del capo, suoi uomini di fiducia o a lui più vicini per simpatia o per convenienza, sarebbero serviti per ultimi. Allora si alza un altro detenuto per dare una mano al cuciniere, di modo che si possano servire ambo i lati contemporaneamente rispettando le gerarchie. Se per qualsiasi motivo, uno qualunque dovesse alzarsi dalla tavola deve usare l’espressione «con permesso» oppure «scusate la tavola»; questo vale anche per il capocella. Il caffè è quasi d’obbligo alla fine del pranzo e lo prepara la persona scelta dal “capo” (ma può anche essere predeterminata, nel senso che il caffè è preparato da uno di coloro i quali sono preposti alle pulizie della cella, ma anche in questo caso il “capo” può esprimere il “desiderio” di farlo fare ad un altro diverso) e ci si alza da tavola soltanto quando lo stesso augura «buona digestione a tutti»; gli altri rispondono «grazie, lo stesso».
   È opportuno ricordare che tutti mangiano le stesse identiche cose, nel senso che le schizzinoserie non sono ammesse: per esempio, chi non mangia la cipolla o qualcosa di particolare è costretto a farlo, altrimenti deve mangiare dalla “casansa”, cioè mangiare ciò che passa l’Amministrazione (spesso si usa l’espressione “buttarsi sul carrello” del vitto),  sempre in quanto il cuciniere non è il servo di nessuno.
   Solitamente nei giorni di colloquio si mangia esclusivamente il pranzo preparato dai familiari. È un giorno speciale, in tutti i sensi: è la “domenica del carcerato”. Si mangia tutto a tavola, anzi è severamente punito chi si permette di toccare anche una sola fetta di salame prima della tavola. Neanche il proprietario lo fa, secondo l’usanza che tutto ciò che arriva in cella è di tutti. Mentre si mangia fare i complimenti al familiare che ha cucinato diventa quasi un obbligo “morale”, con grande soddisfazione del detenuto coinvolto. Questo rito coinvolge così tanto che perfino i detenuti nullatenenti tendono quasi a costringere le loro famiglie a cucinare qualcosa di diverso o di speciale per fare bella figura con i compagni di cella o sentirsi fare i complimenti, anche se non hanno i soldi per farlo. Non solo, ma il fatto di avere una famiglia unita alle spalle è motivo di orgoglio personale. Un detenuto che è stato abbandonato dalla propria famiglia è oggetto di compassione; di solito è il tossicodipendente cronico abbandonato a sé stesso.
   Stando a tavola, può succedere che qualcuno bussi al blindo e si affacci. Solitamente dice «scusate la tavola, posso?», naturalmente rivolgendosi al capo-tavola che è di fronte. Esso può rispondere «stiamo mangiando» (anche se è evidente), ed allora richiede scusa e va via per poi ripassare dopo. In caso contrario fa le sue richieste e prima di andare via dice «scusate ancora e buon proseguimento».
   Come si può capire da quanto sopra esposto la forma è molto importante e sempre la stessa, tanto che tutti i detenuti della comunità arrivano ad usare lo stesso linguaggio, esattamente come è stato descritto sopra. Questo tipo di linguaggio entra nella mente quasi senza accorgersene, sono sempre le stesse parole dette e ridette fino a che, tuo malgrado non ti entrano nel cervello e diventano abituali per tutti. Il modo di parlare diventa norma. Esso violenta la mente facendo scaturire un conformismo di massa che non lascia spazio ad alcuna differenziazione di linguaggio tra gli individui. La sostanza non conta, ma solo la forma. La buona educazione è svuotata del suo vero significato ed il suo concetto rivendica esclusivamente disciplina e ordine, che spesso significa sottomissione al “qualcuno di turno”.
    La cella è come una tradizionale famiglia patriarcale in cui il capo-famiglia, o meglio il padre-padrone dispone tutto per tutti, è responsabile perfino delle loro azioni. Infatti, se uno di loro dovesse comportarsi male al di fuori della cella viene richiamato dal suo capocella in quanto è a lui che si rivolgono; è come se fossero tutti minorenni, e quindi irresponsabili delle loro azioni. In questo modo la dignità dell’uomo viene soppressa e cresce dentro di sé una certa frustrazione che prolungata nel tempo sfocia in mancanza di rispetto del sé. È una “regolamentazione” priva di scopo. È in questione l’immagine di sé, «come individuo capace di autodeterminazione»[1].
Allo stesso modo, se qualcuno deve far valere i suoi diritti verso altri al di fuori deve rivolgersi alla stessa persona, in modo che questi possa far valere la sua autorità e la sua onorabilità verso un altrocapocella a cui è stata affidata la cella ospitante la persona verso cui è diretta la lamentela. Tutto ciò che succede in cella non deve uscire fuori di essa perché «i panni sporchi si lavano in famiglia» (altro principio di fondo). Se qualcuno ha lamentele da fare può farle al capocella.
   Naturalmente la disposizione dei posti letto riflette esattamente quella dei posti a tavola: il primo a destra è occupato dal capocella che, a differenza degli altri, non è a castello. Il televisore si spegne ad un orario ben preciso ed è sempre la stessa persona a decidere (non con la forza, ma le sue preferenze hanno più valore persuasivo) i programmi da vedere (di solito sono programmi di spettacolo dove si possono ammirare i corpi seminudi delle varie ballerine che vi partecipano, oppure vecchi filmsvisti e rivisti un mucchio di volte, magari di mafia). La sera è l’unico momento in cui il detenuto può starsene tranquillo in branda a pensare a se stesso…forse!
   Cosa succede se uno non si conforma a quanto sopra esposto? Direi, soprattutto, che è un po’ difficile che questo possa capitare, in quanto la paura di essere emarginato ti porta a sottostare anche alle più assurde regole comunitarie. Una personalità troppo forte o troppo fragile hanno in comune solo il fatto che prima o poi saranno classificati come dei devianti all’interno di in ambiente conformista: nel primo caso tenterà sempre di imporre la propria volontà su quella degli altri, ma alla fine prevarrà l’unione e la forza di tutti sul singolo. Sarà costretto a cambiare cella o addirittura padiglione perché sarà un po’ evitato da tutti e stigmatizzato per il suo comportamento non conformista. Il suo destino sarà, se non cambierà atteggiamento, un camerone o un padiglione ospitante persone che hanno diviso lo stesso stigma o, ancora più umiliante per lui, sarà trasferito in una sezione dove convivono tutte quelle persone isolate per “garanzia della loro incolumità” (infami, pedofili, stupratori, omosessuali, transessuali, ecc.); nel secondo caso è costretto ad andare via spontaneamente in quanto la propria fragilità non gli permette di imporsi ed è sottoposto ad ogni tipo di angherie e scherzi da caserma militare. Dovrà, nel migliore dei casi, cambiare cella, nel caso in cui ci sia qualcuno più compassionevole e disposto a rispettare la sua dignità di uomo. In caso contrario potrà fare la stessa fine del primo.
   Le soluzioni che ha il “bonu vaglione” è o «fare ciò che dicono e non ciò che fanno» (un altro dei principi fondamentali), cioè sottomettersi agli altri, oppure cercare di simpatizzare con chi ha il potere di proteggerlo. Questa ultima soluzione può rivelarsi molto pericolosa perché può scatenare un sentimento di invidia negli altri, con le conseguenze che ne possono derivare, come si vedrà più avanti, quando si parlerà di sanzioni.
Occorre non dimenticare un’altra piccola regola di fondamentale importanza per il vivere in comunità, cioè quella della pulizia personale e dell’ambiente in cui si vive; l’ambiente rispecchia la personalità dell’individuo per cui una persona ordinata e pulita è percepita come detentrice di uno più alto grado di civiltà. Tra l’altro, anche il Trattamento penitenziario ( D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431) secondo l’art. 72 punisce con sanzioni i detenuti e gli internati «che si siano resi responsabili di negligenza nella pulizia e nell’ordine della persona o della camera».
   Curare la propria igiene e quella ambientale è molto importante in carcere, per due buoni motivi: il primo ha carattere esclusivamente utilitaristico, cioè una buona igiene individuale allontana le malattie o i parassiti che si possono diffondere da persona a persona, visti gli ambienti molto ristretti, come per esempio la diffusione delle piattole o dei pidocchi, cosa già successa in molti casi; il secondo ha invece carattere sociale. La persona “sporca” è soggetta a stigmatizzazione, così come succede all’esterno, solo che in questo caso può essere scansata, magari facendo il giro dell’isolato, mentre in carcere si è costretti a convivere e nessuno è disposto a farlo. D’altra parte l’igiene aiuta l’immagine esteriore dell’individuo e facilita i rapporti interpersonali. Generalmente la pulizia personale e quella della cella riflette la personalità dell’individuo, ma anche il suo grado di prigionizzazione. Infatti dall’osservazione di tutti i detenuti si evince che i più “vecchi di galera” sono coloro i quali dedicano più tempo sia alle pulizie personali che a quelle della cella. Forse dipende dal fatto che inizialmente si vede la cella come qualcosa di estraneo, in cui passarci un periodo di tempo e basta, mentre con gli anni, si ha la consapevolezza che è “la tua casa” e come tale va trattata. Si arriva addirittura ad essere gelosi del proprio posto-branda o della propria cella se si è da soli. Una persona evidentemente sporca è sempre considerata una persona “diversa”, anche e soprattutto nella comunità carceraria.


[1] Mathiesen T., (1996), Perché il carcere?, pag. 168, Edizioni Gruppo Abele, Torino.

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