lunedì 20 febbraio 2012

QUANDO TUTTO E' SISTEMA


Nils Christie ha detto:
«Alcuni di noi lavorano così vicini al potere e alle istituzioni deputate alla punizione da trasformarsi in tecnici della “erogazione della pena”. Noi possiamo influenzare gli operatori del sistema penale, ma nel momento in cui questi assumono alcune nostre prospettive, noi assumiamo alcune delle loro. Loro sono persone che si occupano di erogare pene, cioè sofferenza, e noi lo rendiamo possibile. Dobbiamo avvicinarci per vedere. Ma avvicinandoci troppo potremmo diventare ciechi».
L’impressione, in effetti, è che non solo i criminologi e i sociologi ma i politici e talvolta anche le associazioni e gli operatori che operano dentro le strutture siano diventati ciechi, e magari anche sordi e muti. Allora cresce l’urgenza di rendere il carcere se non trasparente, che è costitutivamente impossibile, almeno luogo aperto ai controlli e all’informazione. Non si può rappresentare la pena se non si illumina (in tutti i suoi oscuri meandri e non solo nelle “sezioni modello”) il luogo dove principalmente essa si svolge.

È un’affermazione forte, non del tutto falsa. Tra l’altro, mi fa venire in mente un fatto accaduto un mio compagno di studi alla facoltà di Scienze Politiche che, prima di arrivare al Polo Universitario carcerario, aveva raccolto materiale inerente la sua esperienza carceraria. In dieci anni aveva conosciuto sette istituti di pena, dal sud al nord, e annotava su un quaderno le vicende che secondo lui potevano essere interessanti. Con dovizia di particolari aveva sottolineato una grande quantità di occasioni di abusi e soprusi degli operatori penitenziari nei confronti dei detenuti, ma anche situazioni di vita reale intramuraria, nonché di relazioni interindividuali tra operatori e tra questi e i detenuti con l’intenzione di scrivere in futuro un libro-denuncia, sperando in questo modo – affermava lui – di combattere un sistema ipocrita e burocratico colpevole di operare illegalmente, in barba a tutti i principi che enfaticamente e retoricamente vengono ricordati nei vari convegni, forum, seminari sul carcere e sulla pena. Senza essere cosciente e senza una preparazione teorico-scolastica, con gli strumenti che la sua cultura e la sua esperienza gli consentivano, aveva materiale sufficiente per descrivere la vita carceraria, mettendo soprattutto in evidenza lo squilibrio delle relazioni di potere tra i vari attori che gravitano all’interno dell’istituzione penitenziaria.
Ebbi occasione di leggere tutto il materiale. Il linguaggio che veniva usato per descrivere e raccontare i fatti era crudo, sincero, con alcuni errori linguistici, poco tecnicistico e palesemente di parte. Era evidente che era una scrittura rabbiosa. Gli proposi di sottoporlo all’attenzione di un sociologo della devianza e studioso del mondo carcerario che all’epoca teneva un corso all’interno del carcere. L’occasione gli venne data dalla tesi di laurea triennale. Non se ne fece niente perché il prof collaborava con le istituzioni e non aveva alcuna intenzione di mettere se stesso in imbarazzo, anche se il materiale che aveva analizzato diceva essere interessante. Che strano! Era evidente l’importanza di ciò che vi era scritto sul quel diario. Bastava dargli un’impronta sociologica, inserirlo in un contesto teorico che tenesse in considerazione i tanti studi sulla vita carceraria che la letteratura specializzata ci ha regalato sin dagli anni cinquanta, quando negli Stati Uniti d’America si è cominciato a studiare le subculture carcerarie, e ne sarebbe venuta fuori una tesi veramente originale, con tanto di notizie dirette, non filtrate.
In Italia non si può. Da noi gli esperti vanno a braccetto con le istituzioni, le stesse che consegnano le chiavi delle celle a dei personaggi frustrati e gli dicono: «Il carcere è nelle vostre mani, fate un buon servizio». Il servizio sicuramente lo fanno, ma a chi è dall’altra parte della barricata, a quei miserevoli che hanno avuto la sfortuna di incrociare sulla loro strada la giustizia penale. «Noi rappresentiamo le Istituzioni» mi rispose una volta un piccolo agente ignorante quando gli dissi, a seguito di un piccolo diverbio, che forse aveva sbagliato mestiere. Sembrava così fiero della mimetica che indossava che non lo avevo mai visto in divisa ufficiale. Si sentiva Rambo e non lo nascondeva. Non generalizziamo, certo, le nuove generazioni di agenti si dice abbiano un approccio diverso con i detenuti.
Già, gli esperti!. Snocciolano dati e statistiche, ripetono tutti le stesse cose come un disco rotto: «Il sistema carcerario non è sufficiente a garantire la dignità delle persone recluse e… bla bla bla» ma che cos’è un sistema? Non è certamente qualcosa di soprannaturale, di metafisico, sempre esistito. Ogni sistema è fatto dagli uomini e da loro può essere soppresso, cambiato, modificato. Dopo secoli di chiacchiere, più o meno sofisticate, più o meno autorevoli, il carcere è ancora lì, maestoso nella sua grigia struttura di cemento, lontano da occhi cittadini, indegno.
Tutti i discorsi, i dibattiti sanno di cosciente ipocrisia. Le denunce fatte da esperti accreditati servono solo a giustificare il carcere così come è dando visibilità mediatica al politico o al funzionario di turno. Il loro scopo è solo quello di accreditarsi come esperti, scrittori di saggi sull’argomento, come studiosi che non studiano niente e che ripetono fino all’infinito ciò che hanno imparato sui banchi universitari qualche decennio prima, ammantato di termini ad effetto, contornato da numeri che interpretano a seconda della tesi del momento, magari apparentemente in contrasto con la vulgata politico-mediatica coeva, ma nello stesso tempo politicamente corretta, senza danni per il potere costituito. I dibattiti si svolgono all’interno di un modello di dialogo in cui sono permesse solo vaghe divergenze, senza mai entrare nei dettagli, senza mai denunciare fatti concreti – a meno che non ci sia stato un fatto eclatante di abuso di potere o di sevizie gratuite impossibili da nascondere. Ed ecco che spunta la teoria della mela marcia. «Le Istituzioni sono sane» si dice, «le mele marce vanno isolate per evitare che intacchino quelle sane» si proclama.
Non è mai venuto in mente a qualcuno di pensare che marcio sia l’albero ed una pianta marcia non può che produrre frutti marci. Si continua a tenerlo in vita perchè il marciume che produce è funzionale ad interessi propagandistici ed elettorali. Se facessero votare i detenuti, il carcere la finirebbe di essere una discarica sociale e diventerebbe una piazza da conquistare a suon di proclami riformistici o addirittura abolizionistici.

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