lunedì 20 febbraio 2012

I RAPPORTI CARCERE/SOCIETA' CIVILE


I progetti mirati alle attività formative e lavorative dei detenuti hanno bisogno di coordinamento e armonizzazione.
Quasi tutti i progetti sociali, ed in particolare quelli che riguardano persone detenute, indicano nel lavoro di rete uno dei metodi più indicati per garantire dopo un periodo di esclusione sociale un effettivo re-inserimento nella società della persona. Buffa si esprime in questi termini: «L’organizzazione di attività lavorative e formative interne e la programmazione di progetti di inserimento esterno, richiamano necessariamente un’azione di coordinamento e di reciproca conoscenza tra le risorse in campo e i vari elementi interagenti […]. Da questo discende l’esigenza di costituire, attraverso tutte le istanze pubbliche e private che vorranno intervenire al fine di ampliare il numero e la qualità degli interventi formativi e lavorativi dedicati ai detenuti, un quadro di riferimento comune. Praticamente questo significa, ad esempio, lavorare in équipe su progetti limitati, ricercando i dati conoscitivi necessari ed individuando le variabili in gioco […]. Solo in questo modo, ovvero rispettando da un lato le caratteristiche personali e giuridiche del detenuto e dall’altro quelle delle risorse da offrire, si potrà operare correttamente ed efficacemente in un’ottica di intervento integrato»[1].

Se lavoro di rete deve essere, dunque, non è pensabile separare le azioni della rete interna con quelle della rete esterna. Pertanto, occorrerebbe favorire la connessione tra le due reti affinché si possa parlare di un effettivo lavoro di rete. Favorire la connessione tra le due reti vuol dire anche aprire le porte del carcere alla società civile.
Ma con il carcere si può fare rete? Secondo Merlo, è impossibile: “La rete [con il carcere] non riuscirò mai a farla, non si fa rete con le istituzioni, si fa contratto, al massimo si riesce a negoziare un protocollo ma non mollano un centimetro ad un soggetto esterno dei loro margini decisionali e operativi, sono autoreferenziali”. [144]
In questo contesto si inseriscono anche le critiche di De Salvia fatte nel capitolo precedente (cfr. infracap. 4, par. 4).
Queste affermazioni forti in un periodo in cui il lavoro di rete è ritenuto fondamentale per la buona riuscita di un percorso di reinserimento socio-lavorativo di persone private della libertà personale, non è campata in aria. L’autoreferenzialità dell’istituzione totale è indiscutibile e in nessuna realtà del Paese esiste una prassi strutturale che coinvolga contemporaneamente le due reti, interna ed esterna, in modo che possa affermarsi l’unicità del percorso di reinserimento degli individui reclusi. Esiste, purtroppo, un percorso interno, se di percorso si può parlare, che non ha come obiettivo primario il reinserimento lavorativo esterno ma solo quello di gestire le dinamiche sociali interne e di alleviare le sofferenze della carcerazione.[145] Di per sé, dal punto di vista della qualità della vita carceraria, è estremamente positivo poiché in questo modo si tende a limitare la «tirannia delle inezie»[146], ma, in termini di collaborazione “paritaria” interno-esterno, non si può dire che si siano fatti passi avanti significativi, anche se, conviene sempre ricordarlo, ci sono delle realtà carcerarie in cui sono stati fatti grandi sforzi in questa direzione, che conferma il fatto che, per dirla con Buffa, “ogni carcere è una repubblica autonoma”.[147]
Il rapporto tra carcere e territorio è un tema di cui si è molto parlato e discusso, basti pensare che già la riforma penitenziaria, recependo le indicazioni della Carta Costituzionale, dà molta importanza ai “contatti con il mondo esterno” (art. 15, co. 1). Anche se il dibattito ha dato maggiore enfasi all’intervento della società civile come controllo dell’apparato istituzionale al fine di “umanizzare la pena”, non si può tralasciare il fatto che il territorio ha un ruolo fondamentale nel percorso di reinserimento della persona detenuta e potrà svolgere appieno il suo ruolo solo se alcuni settori della società civile potranno occuparsi dell’individuo “svantaggiato” già nel corso dell’esecuzione della pena (per esempio, gli operatori della formazione professionale potrebbero benissimo collaborare con l’area trattamentale per la ricerca di uno sbocco lavorativo alla fine del percorso di formazione[148]), naturalmente con prerogative evidentemente diverse da quelle degli operatori penitenziari.
Se, come dice Ota De Leonardis, le carceri non sono delle “entità metafisiche”[149], ma “artefatti umani intenzionali e, come tali, possono essere dagli uomini modificati, smontati e ricostruiti diversamente”[150], allora sarà necessario scalfire “l’inerzia [che] non sta solo nell’autoreferenzialità dell’organizzazione ma anche nella resistenza individuale degli operatori che stentano a vedere in modo diverso la loro azione, nella difficoltà, connaturata in ognuno di noi, di accettare di riconoscere i propri errori e farne tesoro nella ricerca di nuove possibili soluzioni”[151].
Se si riconosce che il confronto tra carcere e territorio è “stimolante e necessario”, e se si ha la consapevolezza che il carcere è “in grado di modificarsi”[152] perché persiste nella sua autoreferenzialità e non “fa rete”?
Molti spiegano questa discrasia tra il dire e il fare con il timore della perdita di potere decisionale da parte degli operatori penitenziari, di conseguenza tutti i cambiamenti che contrastano con i presupposti del conservatorismo istituzionale vengono rigettati.
Mathiesen individua alcune tecniche di neutralizzazione che il personale penitenziario mette in atto per contrastare le iniziative di cambiamento che provengono dall’esterno, mantenendo gli “interessi del sistema”[153]. Alcune di esse rifiutano categoricamente le idee innovative, altre cercano di vanificarle.
La prima tecnica è “lavarsene le mani” spostando la responsabilità delle decisioni su una “autorità superiore” deputata solo essa a decidere su istanze che introducono “novità nella vita dell’istituto”.
La seconda tecnica è quella di “svuotare le proposte” che confliggono con gli interessi del sistema e “consiste nel definire le novità come irrilevanti per il carcere”.
Un’altra tecnica è rendere impraticabili le nuove idee, ritenute irrealizzabili a causa soprattutto della particolarità delle istituzioni totali, malgrado fossero ottime per altre istituzioni.
Con la dilazione si rinvia “fino a nuovo ordine” la decisione di prendere in considerazione una nuova proposta mettendola “in ghiaccio”. Spesso l’idea è considerata interessante ma bisognosa di ulteriori approfondimenti.
Una quinta tecnica è quella di “sminuire un’idea o una iniziativa”, svalutandola nella sua importanza pratica, magari “ostentando interesse e persino entusiasmo”. È una tecnica molto frequente nelle istituzioni totali.
L’ultima tecnica è l’appropriazione, nel senso che l’idea viene fatta propria, “ma in modo tale che l’elemento nuovo sia sottilmente e impercettibilmente cambiato, per cui entra a far parte delle strutture esistenti senza minacciarle; ma se ne conserva, insieme con il nome, la sensazione di aver iniziato qualcosa di utile e che rompe con il sistema”.[154]
A mio avviso, il sistema non può cambiare se non cambia la mentalità e la cultura degli uomini che lo organizzano e lo gestiscono, in tutti i suoi livelli gerarchici, e qualsiasi “innovatore” deve avere il coraggio di affrontare e contrastare il potere delle gerarchie ormai consolidate che si oppongono alle innovazioni utilizzando qualsiasi strategia per neutralizzare i tentativi di cambiamento.
Cambiare le prassi della vita intramuraria non è un’operazione così semplice da farsi dall’oggi al domani. I motivi vanno ricercati soprattutto, come si è detto, nel consolidamento di una cultura autoreferenziale del personale carcerario, che rende difficile l’applicazione di pratiche innovative nella gestione quotidiana della vita carceraria. All’interno del carcere, gli operatori hanno consolidato negli anni la loro posizione ed il loro potere che è difficile scardinare con piccole modifiche di facciata.
Stando così le cose, se le idee che vengono dall’esterno vengono sistematicamente contrastate, diviene interessante la visione di Buffa ispirata “ad un riformismo interno e pragmatico, composto da scelte operative e locali piuttosto che da generali interventi strutturali e normativi”[155]. Il pensiero di Buffa sembra andare in questa direzione ma quando si passa dalla teoria alla pratica, le sue idee “innovatrici” non possono non essere sottoposte a continui attacchi, in modo più o meno nascosto, da parte del personale carcerario, poiché qualsiasi innovazione, malgrado provenga dall’interno, incontrerà resistenze da chi quel cambiamento non lo vuole.
Anche in questo caso il personale penitenziario metterà in moto una serie di strategie di contrasto a quelle innovazioni (per esempio, farà ricorso alla cronica mancanza di personale, oppure semplicemente disattenderà le direttive ritardando le pratiche burocratiche, ecc.) atte fondamentalmente alla ridistribuzione del potere.
Le innovazioni sono, per definizione, mutamenti nella distribuzione dell’autorità e delle responsabilità all’interno di una qualsiasi organizzazione gerarchica. Nelle istituzioni totali tali mutamenti incontreranno forti opposizioni, a meno che non accrescano l’autorità e la responsabilità di coloro che sono già al potere.
Tutti i cambiamenti, siano essi provenienti dall’interno che dall’esterno, che contrastano con gli “interessi del sistema”, diventano impossibili perché minano il potere costituito e tendono ad una nuova distribuzione di esso anche nella organizzazione burocratica della vita carceraria.
Il pensiero di Buffa, a mio modo di vedere, è interessante e stimola al dibattito, se non altro perché egli stesso dirige un carcere ed io, in qualità di persona detenuta, faccio parte di quell’universo. La mia posizione, malgrado fossi dall’altra parte della barricata rispetto al Direttore, non è improntata ad una contrapposizione di principio, secondo i canoni esistenti all’interno della comunità carceraria, anzi credo che Buffa abbia centrato il fulcro del problema, il carcere può cambiare. Ma non da solo, anche per la presenza all’interno del sistema di codici culturali contrapposti tra gli operatori del custodiale e quelli del trattamentale[156], che costituiscono già di per sé un ostacolo per qualsiasi cambiamento anche proveniente dall’interno (per esempio, da parte del direttore di un istituto penitenziario).
In questo senso è interessante la posizione di un altro operatore carcerario, Lucia Castellano, direttrice del carcere sperimentale di Bollate (MI).
Ella esordisce affermando che “Il carcere comincia a cambiare quando la gestione dell’istituto è presa in carico da tutto il territorio” [157]. È una posizione che se da una parte la pone sulla stessa linea riformista di Buffa, dall’altra va oltre poiché ha rinunciato al “potere assoluto”.
Vale la pena di riportare ancora alcuni punti dell’intervento di Castellano:

“Come se fossi il sindaco di un piccolo comune, vivo nel contenitore metropolitano esterno applicando il principio dei vasi comunicanti, gestendo l’utenza congiuntamente al territorio, in tutti i settori condivisibili. La vera rivoluzione culturale, che crea non poche difficoltà a un sistema così autoreferenziale, consiste nell’accettare di essere messi in discussione dall’esterno, non solo dai propri superiori gerarchici. […].
Condividere il potere significa accettare il rischio di essere messi all’angolo, di non avere risposte, di ritrovarsi senza coperture possibili. È un rischio a cui, quotidianamente, sottopongo tutta l’amministrazione a cui appartengo. Ma è la sola possibilità che vedo per rendere sostanzialmente credibile il nostro lavoro, e quindi il luogo di espiazione delle pene. […].
Un carcere avulso ed escluso dalla città che lo contiene favorisce la perdita di senso dell’intero sistema: il sentimento dell’esclusione permea di sé tanto i carcerati quanto i carcerieri. […] lo scopo reale dell’istituzione totale è ancora quello di eliminare l’identità del prigioniero, per gestirlo più agevolmente. Il carcere che cambia deve accettare il rischio di mettere in discussione il suo stesso atto fondativo. Deve rivoluzionare se stesso. Con queste nuove basi potrà sperare di produrre la definitiva libertà dei suoi abitanti.”[158]

L’Istituzione carceraria, dunque, in settori come quello della formazione, del lavoro, dei processi di reinserimento sociale (ma anche della sanità) dovrebbe impegnarsi ad aprirsi al territorio, trovando la massima integrazione con le politiche e le strategie rivolte alla generalità dei cittadini. “Non ha senso”, come afferma Migliori, […] “un lavoro penitenziario e una formazione penitenziaria!”. La società deve fare ingresso in carcere, con i propri servizi, le proprie risorse e le proprie strategie. “Questo non significa espropriare l’istituzione carceraria e il suo personale della titolarità a progettare e a realizzare determinate azioni, ma far sì che l’organizzazione di certi settori, di vitale importanza per il detenuto quanto per il cittadino libero, siano assolutamente gli stessi, parte di uno stesso sistema sociale”[159].
La corrispondenza delle attività  e dei servizi carcerari con quelli territoriali certamente avrebbe ricadute positive nei percorsi di reinserimento socio-lavorativo intrapresi dai detenuti, poiché la attività formative seguite all’interno corrisponderebbero a quelle esterne: stesse programmazioni, stessi titoli conseguibili, stessi enti e agenzie organizzatrici. L’ordinarietà delle iniziative “determinerebbe uncontinuum di offerta e di riferimenti molto importante, basti pensare agli effetti che questo potrebbe avere sulla persona che, a un certo punto dell’esecuzione della pena, inizia a uscire in misura alternativa e, quindi, a confrontarsi con la società esterna”.
In linea con Margara (cfr. infra, parte I, cap. 2, par. 7.2: “La discrasia tra principi e prassi”) e, nella sostanza anche con Castellano, Migliori ritiene necessario che l’istituto penitenziario sia considerato come una parte del sistema sociale più generale. “Il principio di fondo è quello di restituire il carcere alla società, di considerarlo come parte di quest’ultima e di evitarne qualsiasi rischio di ghettizzazione o di separazione dalla comunità libera che non sia assolutamente necessario per comprovati motivi di sicurezza pubblica”[160]. Principio che sembra fondamentale per la progettazione di percorsi che favoriscano il reinserimento sociale e lavorativo del detenuto.
Considerare il carcere come una “istituzione del territorio” a tutti gli effetti non può prescindere da un piano di sviluppo delle politiche territoriali più ampio che comprenda anche una territorializzazione della pena, consentendo ad ognuno di poter scontare la condanna sul proprio territorio. Ciò consentirebbe, oltre a favorire le relazioni familiari e sociali dei detenuti, di agevolare i percorsi di reinserimento e l’accompagnamento da parte dei servizi territoriali. D’altra parte questo scambio tra dentro e fuori “potrebbe attenuare anche quegli stereotipi, quei preconcetti e quelle forme di pregiudizio che sovente caratterizzano i rapporti tra carcere e comunità sociale circostante”[161].
Nel brano citato sopra, la Castellano afferma che il carcere per poter “sperare di produrre la definitiva libertà dei suoi abitanti” deve “rivoluzionare se stesso”, cioè andare oltre il suo “scopo reale” che “è ancora quello di eliminare l’identità del prigioniero, per gestirlo più agevolmente”.
Tale affermazione può essere connessa ai due argomenti trattati sopra, che ritengo essenziali nell’analisi sui percorsi di re-inserimento socio-lavorativo di persone provenienti da percorsi penali: le forme sociali della condizione carceraria e le relazioni di potere. Entrambi gli argomenti sono direttamente collegati alla identità personale e professionale del prigioniero (che andrebbe ri-costruita e non eliminata), in quanto presupposto essenziale per gestire autonomamente e responsabilmente le dinamiche relazionali al di fuori dell’istituzione, una volta intrapreso il percorso di riabilitazione sociale e lavorativa.
Tratto da tesi di laurea di Giuseppe Colazzo.









[144] Roberto Merlo, Psicologo esperto di analisi degli interventi sociali, in www.carcereesocietà.it, “Sperimentazione di reti locali per l’inserimento socio-lavorativo di detenuti ed ex detenuti”, Parma 20-05-2004, Consorzio Forma Futuro.

[145] È opportuno evidenziare che esistono dei piccoli esempi che vanno in senso contrario rispetto a quanto si è detto. La cooperativa “Giotto” che opera nel carcere di Padova ne è un esempio concreto. Infatti, fa formazione professionale, produce all’interno per vendere all’esterno e la persona assunta ha la concreta possibilità di poter trovare un lavoro all’esterno. Anche nel carcere di Torino esistono realtà simili, come le Cooperative “Eta beta”, “Punto e a Capo” e Pausa Cafè”. Tutte, purtroppo, hanno una incidenza minima sul mercato del lavoro esterno.

[146] La definizione, coniata da R. Kristoffersen e stata ripresa da P. Buffa, op. cit., 8.

[147] Ibid.,  9.

[148] Questo tema sarà ampiamente trattato nei prossimi capitoli.

[149] O. De Leonardis, Le istituzioni: come e perché parlarne, Carocci, Roma, 2001.

[150] P. Buffa, op. cit., 12.

[151] Ibid.

[152] Ibid., 11.

[153] T. Mathiesen, op. cit.

[154] Tutte le espressioni virgolettate sono di Mathiesen, op. cit., pagg. 72-75.

[155] P. Buffa, op. cit., 9.

[156] Sarzotti ha distinto gli operatori del custodiale dagli operatori del trattamentale, evidenziando “le profonde diversità di livello culturale, di formazione professionale, di mission organizzativa, di ethos professionale etc. che a tutt’oggi caratterizzano i due gruppi”. Inoltre definisce “paterna” la cultura giuridica degli operatori del custodiale e “materna” quella degli operatori del trattamentale. Per una trattazione completa sui due codici cfr. Sarzotti (c), op. cit.,

[157] L. Castellano, La teoria dei vasi comunicanti: carcere e territorio, in Communitas, diretto da A. Bonomi, e ripreso da http://www.ristretti.it/convegni/triennale/index.htm.

[158] Ibid.

[159] S. Migliori, op. cit., 89.

[160] Ibid., 90.

[161] Ibid., 93.

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