lunedì 20 febbraio 2012

IL CARCERE E' INDIFENDIBILE


Che cos’è la pena? Qual è la sua funzione?
È possibile riformare una istituzione che, come molti scienziati sociali hanno evidenziato, anche se in modo diverso (cfr. Mathiesen, 1996 – Brossat, 2003 – Cohen, 1975 – Fassone, 1980), tende a perpetrare se stessa, malgrado i tentativi di riforma apportati negli anni (ultimo in ordine di tempo: DPR 30 giugno 2000, n. 230)?
Alcuni, come Mathiesen e Brossat, concludono che il carcere è indifendibile, per cui va abolito, anche nella sua struttura fisica; altri, come Fassone (1980) sottolineano l’esistenza di una contraddizione tra l’impossibilità di riformare il carcere e la sua abolizione.
Aldilà del dibattito scientifico, considero la posizione degli abolizionisti come utopica[1], poiché è chiaro che non viviamo in un clima favorevole all’abolizione, anzi le politiche criminali attuate negli ultimi 10 anni, improntate sulla zero tollerance,  hanno fatto sempre più ricorso al carcere come normale strumento di controllo della criminalità e dell’ordine sociale;
Malgrado il paradosso evidenziato, Fassone (1980) ha sottolineato che non si può rinunciare all’umanizzazione del carcere attraverso la tutela effettiva dei diritti delle persone in detenzione. Ciò è possibile solo attraverso il controllo esterno dell’apparato da parte di alcuni settori della società civile (in Buffa, 2006).
Tale posizione è condivisa dall’associazione Antigone (2000), secondo la quale l’istituzione penitenziaria non sarebbe in grado, in quanto parte, di modificare le proprie prassi e i propri atteggiamenti. Negli ultimi anni, in via sperimentale, alcune città più grandi e forse più sensibili a questo tema (Roma,Torino, Bologna) hanno istituito la figura del garante dei diritti delle persone private della libertà che, secondo Antigone, ha un ruolo di mediazione e di stimolo tra il detenuto e l’amministrazione (Buffa, 2006).
A tale proposito, la visione di Buffa (2006), ispirata “ad un riformismo interno e pragmatico, composto da scelte operative e locali piuttosto che da generali interventi strutturali e normativi”, è molto interessante. È una posizione chiara che lo porta, come egli stesso scrive, “a fare tutto il possibile per renderlo [il carcere] più umano e capace di salvaguardare la dignità umana delle persone che lo praticano”.

Buffa (2006), che è direttore del carcere di Torino, non nega che il confronto tra il carcere e il territorio sia interessante, anzi lo ritiene “stimolante e necessario”, ma dissente “laddove si esclude che l’amministrazione non sia in grado di modificarsi”. Il suo spirito riformatore, guidato da un realismo pragmatico, gli consente di affermare che il conservatorismo tipico dell’istituzione totale «non sta solo nell’autoreferenzialità dell’organizzazione ma anche nella resistenza individuale degli operatori che stentano a vedere in modo diverso la loro azione, nella difficoltà, connaturata in ognuno di noi, di accettare di riconoscere i propri errori e farne tesoro nella ricerca di nuove possibili soluzioni».
Nello stesso tempo Buffa riconosce a Ota De Leonardis (2001) di aver messo in evidenza che le istituzioni non sono delle entità metafisiche ma “artefatti umani intenzionali e, come tali, possono essere dagli uomini modificati, smontati e ricostruiti diversamente”. […] Secondo l’autrice il cambiamento è possibile solo se gli attori sono in grado di vedere e apprezzare il campo istituzionale nel quale sono immersi” (Buffa, 2001).
Lo stesso pensiero è espresso da un altro Direttore, Lucia Castellano, direttrice del carcere sperimentale di Bollate (MI) in un intervento su Communitas, mensile diretto da Aldo Bonomi e apparso sul sito di Ristretti Orizzonti (www.ristretti.it) : “La teoria dei vasi comunicanti: carcere e territorio”.
Ella esordisce subito affermando che “lo scopo dell’istituzione totale è ancora quello di eliminare l’identità del prigioniero, per poterlo controllare. Il carcere comincia a cambiare quando la gestione dell’istituto è presa in carico da tutto il territorio”. È una posizione che se da una parte la pone sulla stessa linea riformista di Buffa, dall’altra va oltre poiché ha cercato “di sovvertire la logica perversa della spoliazione dell’identità, condividendo progressivamente il potere gestionale con i detenuti e chiedendo loro la responsabilità di scelte e l’autoregolamentazione del loro tempo”. Una posizione veramente “rivoluzionaria”, sia perchè il concetto di responsabilità collettiva non è patrimonio della persona detenuta, in quanto la coabitazione non è una scelta volontaria, sia perché per la prima volta un direttore di un istituto di pena dichiara di aver rinunciato al “potere assoluto sui detenuti” e “imparato a condividerlo con loro”.
Vale la pena di riportare ancora alcuni punti dell’intervento di Castellani:

Come se fossi il sindaco di un piccolo comune, vivo nel contenitore metropolitano esterno applicando il principio dei vasi comunicanti, gestendo l’utenza congiuntamente al territorio, in tutti i settori condivisibili. La vera rivoluzione culturale, che crea non poche difficoltà a un sistema così autoreferenziale, consiste nell’accettare di essere messi in discussione dall’esterno, non solo dai propri superiori gerarchici. […].
Condividere il potere significa accettare il rischio di essere messi all’angolo, di non avere risposte, di ritrovarsi senza coperture possibili. È un rischio a cui, quotidianamente, sottopongo tutta l’amministrazione a cui appartengo. Ma è la sola possibilità che vedo per rendere sostanzialmente credibile il nostro lavoro, e quindi il luogo di espiazione delle pene. […].
Un carcere avulso ed escluso dalla città che lo contiene favorisce la perdita di senso dell’intero sistema: il sentimento dell’esclusione permea di sé tanto i carcerati quanto i carcerieri. […] lo scopo reale dell’istituzione totale è ancora quello di eliminare l’identità del prigioniero, per gestirlo più agevolmente. Il carcere che cambia deve accettare il rischio di mettere in discussione il suo stesso atto fondativo. Deve rivoluzionare se stesso. Con queste nuove basi potrà sperare di produrre la definitiva libertà dei suoi abitanti.

Il pensiero di Buffa, a mio modo di vedere, è interessante e stimola al dibattito. La mia posizione non è improntata ad una contrapposizione di principio, secondo i canoni esistenti all’interno della comunità carceraria, anzi credo che Buffa abbia centrato il fulcro del problema, il carcere può cambiare e può farlo avendo sempre come punto di riferimento «le pratiche e la materialità della vita istituzionale».
Cambiare le prassi della vita intramuraria non è un’operazione così semplice da farlo dall’oggi al domani, neanche se si è direttori, ossia il più alto livello di potere gerarchico all’interno del carcere. I motivi vanno ricercati soprattutto nel consolidamento di una cultura autoreferenziale anche degli operatori della sicurezza e dell’area trattamentale, che rende difficile l’applicazione di pratiche innovative nella gestione quotidiana della vita carceraria, malgrado fossero “consigliate” o “ordinate” dalla direzione. All’interno del carcere, questi operatori hanno consolidato negli anni la loro posizione ed il loro potere che è difficile scardinare con piccole modifiche di facciata.
Il sistema non può cambiare se non cambiano gli uomini che lo organizzano e lo gestiscono, in tutti i suoi livelli gerarchici, e qualsiasi “innovatore” (interno o esterno) deve avere il coraggio di affrontare e contrastare il potere delle gerarchie ormai consolidate che si oppongono alle innovazioni utilizzando qualsiasi strategia per neutralizzare i tentativi di cambiamento.
Le innovazioni sono, per definizione, mutamenti nella distribuzione dell’autorità e delle responsabilità all’interno di una qualsiasi organizzazione gerarchica.
Nelle istituzioni totali tali mutamenti incontreranno una forte opposizione a meno che non accrescano l’autorità e la responsabilità di coloro che sono già al potere.
Tutti i cambiamenti, siano essi provenienti dall’interno che dall’esterno, che contrastano con i presupposti del conservatorismo del carcere, e del sistema penitenziario in generale, diventano impossibili perché minano il potere costituito e tendono ad una nuova distribuzione di esso anche nella organizzazione burocratica della vita carceraria.


[1] A tal proposito Mathiesen (1996) afferma che “come scienziati sociali spronati e guidati dai valori, non dobbiamo prendere come nostra bussola il realismo, benché possiamo […] tenerlo prudentemente in considerazione”. Secondo M., una visione realistica, che sostiene mutamenti che possano risultare accettabili per le autorità politiche, non porterebbe a risultati concreti circa l’abolizione del carcere, “una struttura delle più grandi e distruttive istituzioni della società moderna”.

Nessun commento:

Posta un commento